I Santuari rupestri di San Mauro di Capizzo e Santa Lucia di Magliano

Il Cilento di fede

​Per quanti passano un periodo di vacanza lungo le coste del Cilento da Paestum ad Agropoli ed oltre, consiglio una escursione/visita alle zone interne, magari alla scoperta di chiese rupestri e santuari sulle cime dei monti...

Cultura
Cilento mercoledì 19 luglio 2017
di Giuseppe Liuccio
Immagine non disponibile
Cappella rupestre - San Mauro - Capizzo © web

Per quanti passano un periodo di vacanza lungo le coste del Cilento da Paestum ad Agropoli ed oltre, consiglio una escursione/visita alle zone interne, magari alla scoperta di chiese rupestri e santuari sulle cime dei monti a dominio di panorami sconfinati di luce. Potrebbero essere viaggi di straordinarie sorprese tra storia e fede. Il Viaggio di oggi, che è tratto dal mio libro “I SANTUARI DEL CILENTO” (Edizioni Il Saggio), ci porta a Capizzo ed a Magliano lungo la Provinciale che da Capaccio porta a Stio ed oltre.

Il cimitero di Monteforte è aperto ai venti con i contrafforti dei monti a far da quinta. I morti vegliano le povere campagne da cui trassero, a sudori, il pane stento.

La strada procede a tornanti ariosi: balconate spalancate sui declivi a scivolo nella vallata. Ci sono stato di recente. C’era il fasto dei colori sgargianti dei giorni di festa nelle campagne del Cilento interno in una mattinata luminosa. Il rosso intenso dei papaveri gareggiava con il viola cardinalizio dei cardi e macchie di ginestre rovesciavano colate di giallo-oro agli argini di strade e sui declivi delle colline incolte; ed ingioiellavano montagne rigogliose di vegetazione, pigmentandone il verde intenso. La macchina arrancava solitaria per la provinciale sconnessa ed avvallata dall’incuria e turbava il pascolo sereno di una capra che dava voce alla protesta del campanaccio, il cui suono ingigantito dall’eco andava a sperdersi nella vallata. Ed una vecchia con il suo carico di sulla fiorita, curva sotto il peso degli anni e dell’artrite, guardava incuriosita ed accennava ad un timido saluto con un sorriso pudico a mezza bocca sdentata.

Ad una svolta Capizzo che, nel grumo di case a corona della Chiesa Madre, testimonia di laure basiliane. Il campanile unico nella massiccia struttura da fortilizio e la Chiesa di San Fortunato mi accendevano memoria di anni lontani, quando un parroco colto e pio, don Telemaco, mi riecheggiava nel nome freschi studi di poemi omerici e mi introduceva con sapienza e pazienza alla conoscenza ragionata del patrimonio artistico della Parrocchiale: tele di grande valore (aimè in seguito trafugate!) e pregevoli affreschi sulle volte e nelle cappelle laterali. E mi parlava di processioni penitenziali e di acque lustrali, che ieri, come oggi, si snodavano in luglio su per le mulattiere ombrose di montagna a conquista di panorami da delirio e testimonianze di fede nella materializzazione degli ex-voto tra fiammelle di candele, trepide lucciole zig-zaganti, e gloria di campane a distesa che si rincorrevano e si rincorrono tra valle e monte: San Mauro Protettore veglia di lassù tra gente e campagne, immobile nella nicchia con la pesante statua di malta, mattoni e gesso policromo, benedicente.

È da non perdersi la processione all’alba del prossimo 11 luglio tra strade di campagna e di montagna fino ai mille metri della spianata ardita del santuario: un grande edificio a cui si accede attraverso un portale gentilizio seicentesco. Bella nella sua semplicità la cappella con soffitto in legno e tetto in cotto; straordinario il matroneo addossato al muro laterale, all’ingresso;suggestivo il presbiterio ricavato in un anfratto di roccia; sorridente il Santo policromo nella statua di malta e mattoni. Proprio qui, come narra la leggenda, apparve in sogno ad una donna di Monteforte, esortandola a svelarne il nascondiglio. Il popolo processionante ne rinvenne la statua e tentò di portarla a valle tra canti e preghiere. Invano. A metà percorso diventò così pesante che fu impossibile procedere oltre. I fedeli tentarono di costruirvi una cappella, ma il lavoro fatto di giorno veniva misteriosamente disfatto di notte. Era la volontà inequivocabile del Santo di tornare alla sua grotta d’origine. E così fu. E da secoli, lassù, accoglie benedicente i fedeli che vi arrivano stanchi di percorso, carichi di penitenza e fiduciosi di speranza.

Qui siamo nel territorio di Magliano, che a qualche chilometro di distanza si stende pigro a margine di strada o si arrampica ardito a conquista di monte fino alla cappella rupestre di Santa Lucia, a ridosso della Montagna Rossa, meta di pellegrinaggi di fede consumati all’alba per arditi percorsi di campagna.

Il santuario è costituito da due ambienti piuttosto angusti, contigui. Ognuno dispone di un altare in fabbrica. Sul muro di fondo della parte nuova vi è un bell’affresco della Santa. La cappella antica è sul lato sinistro, con il vecchio altare; dietro l’antro di preghiera, ricco di suggestione con le mille candele accese a rifrangere luce nelle piccole cavità delle pareti rocciose.

Ah, le ricchezze sconosciute cariche di emozioni del mio Cilento!

Di Magliano ce ne sono due, il Vetere quaggiù, a dominio dell’Alto Alento, il Nuovo lassù, aperto all’anfiteatro ubertoso della Valle del Calore e quasi a precipizio sulle gole del fiume, verde ed incontaminato regno della lontra fin laggiù all’oasi di Remolino, che rifrange l’argento della cascata alla rupe, orrida e bellissima, di Felitto.

Magliano fu stato autonomo e forte ed evoca le battaglie dei Goti e l’inespugnabile passo della “Preta Perciata” per il difficile accesso dal territorio dell’Alento a quello del Calore, e di là, attraverso la Sella del Corticato, al Vallo del Diano e fino a Grumentum nella Valle dell’Agri: percorso che di certo conobbero Velini e Pestani per comunicare, via terra, con Sibari, animando traffici e commerci dal Tirreno allo Ionio.

Dalle pagine di storia fuoriescono conti e baroni a popolare residenze di pregio e manieri turriti; e per i vicoli sciama l’esercito senza nome di contadini e pastori alle prese con la quotidiana fatica del vivere. E, a prestar orecchio alla brezza leggera che alita sui fiori spontanei sbocciati per incanto sui muri della vecchia chiesa, riecheggiano le gesta di Menechiello, brigante spietato con i potenti e generoso con i deboli, che, nativo della vicina Gorga, esercitò dominio di vita e di morte su di un bel pezzo di territorio cilentano, nel quale si sfoglia una straordinaria pagina di storia, fatta di santi e madonne e briganti, di fede e rivolte sociali. È l’anima prismatica della mia terra.

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