Santuario e castello, Madonna e Federico

Riscoperta e valorizzazione di Capaccio Vecchio

​Continuo ad analizzare, anche se a volo di uccello, la storia di Capaccio Vecchio, passando in rassegna i libri sull’argomento, che ho (ri)letto di recente...

Cultura
Cilento venerdì 29 settembre 2017
di Giuseppe Liuccio
Immagine non disponibile
Castello Capaccio © Web

Continuo ad analizzare, anche se a volo di uccello, la storia di Capaccio Vecchio, passando in rassegna i libri sull’argomento, che ho (ri)letto di recente. Il quarto libro, in questione, che suggerisco ai miei lettori, è un classico della storia capeccese/pestana, come si evince chiaramente già dal titolo “Le Antichità Pestane”.

Ne è autore Giuseppe Bamonte, che fu canonico della cattedrale dell’Antica Diocesi di Capaccio, che ebbe come sede vescovile Capaccio Veccio. L’episcopio era nei pressi della Chiesa Cattedrale del Granato. Pertanto il canonico è uno storico affidabile e documentato, fatta salva la tara di latente faziosità per il papa per obbligo di ruolo e funzione, anche perché visse dall’interno e in posizione da protagonista gli ultimi periodi gli della Diocesi di Capaccio Vecchio. Buona parte del libro è dedicata alla storia di Paestum e dei suoi monumenti, soprattutto all’assalto dei pirati ed al successivo impaludamento della Pianura. Si lascia però apprezzare anche per una appendice che ha come titolo: “Notizie su Capaccio Paestum” dalla quale estrapolo un’ampia e significativa citazione. “In grazia della mia diletta patria Capaccio, degna figlia di Pesto, come viene chiamata in una iscrizione nella cattedrale, diremo brevemente di essa qualche cosa. Prese il nome latino da Caputaqueum dal sostantivo caput ed aggettivo aqueum e ciò per la sua situazione del monte Calpazio, dalle cui radici sgorgano le acque del fiume detto oggi Capodifiume, diverso dalla fonte d’acqua dolce dai pestani chiamata ‘Capo d’acqua’, che dista circa cinque miglia ed è propriamente vicina a Trentinara… Vivevano i Capaccesi tranquilli nella loro nuova patria Capaccio quando la fellonia di Teobaldo, Guglielmo e Francesco Sanseverino, conti di Capaccio, Pandolfo, Riccardo e Roberto Fasanella, Goffredo e Giacomo da Morra, Gisolfo da Morra, Gisolfo da Madia e Andrea Cigala capitano contro Federico II, imperatore e re di Napoli, che venne a disturbarli. I congiurati perseguitati da Federico II si rifugiarono specialmente nel forte Castello di Capaccio, posto su una alta e forte roccia sovrastante alla città; anche oggi ne esistono i ruderi in due torri e mura. Dalla armata di Federico fu assalita la città ed il castello dalla parte di Oriente: dopo molti attacchi, difendendosi valorosamente i cittadini, fu presa la città e questi nella maggior parte passati a fil di spada nel 17 aprile 1248. Qualche mese dopo fu espugnato il castello preso per sete, per aver gli assedianti rotta nel di fuori l’unica e grossa cisterna d’acqua, rivelata da una maliarda vecchia. Ed i congiurati presi e cuciti ciascuno vivo in un sacco con un cane, una scimmia, un gallo ed una vipera, (massacrati) furono nella vicina spiaggia, quali rei di tentato parricidio. Solo Ruggero Sanseverino, fanciullo di nove anni, condotto da accorto servitore a Polissena Sanseverino sua zia duchessa di Celano e da questa mandata ad Innocenzo IV sommo pontefice fu salvato dalla strage. Furono quindi cavati gli occhi per ordine di Federico colà venuto e fatti bruciare vivi tutti i congiunti dei congiurati fino al quarto e quinto grado. La Congiura contro Federico accadde a due anni dall’assedio di Parma, cioè nel 1245, oppure nel 1246, e dopo che Federico si era rifugiato in Grosseto Maremma di Siena. Dunque Capaccio fu distrutta nel 1247 o nel 1248. Come abbiamo detto”.

La repressione feroce dei congiurati da parte di Federico descritta nei minimi particolari dal canonico, che parteggia notoriamente per il Pontefice, mi impone di ritornare sul tema della “congiura dei baroni” e della distruzione di Capaccio Vecchio, di cui resta, a memoria dell’evento, lo scheletro del Castello in posizione minacciosa su uno sperone di roccia del Calpazio. Mi impone, dicevo, di tornare sul tema per ricordare che se ne sono occupati in molti. Cito, a tal proposito, la bella pubblicazione dell’amico Gaetano Ricco: Federico II di Svevia e la Congiura di Capaccio, di cui ho scitto qualche anno fa, mettendone in risalto la serietà della ricerca, soprattutto per lo scrupolo dei particolari dell’evento, che ebbero come teatro il vasto territorio contiguo al Castello di Capaccio Vecchio. Me ne occuperò ancora a breve, come abbiamo concordato in una lunga e cordiale conversazione telefonica all’insegna dell’amicizia, che profuma di antico e della profonda stima reciproca che ci lega, nella consapevolezza, anche questa reciproca e profonda, del ruolo degli intellettuali per recuperare ed esaltare la CULTURA come strumento ineludibile per il riscatto del nostro territorio ferito ed oltraggiato dalla politica parolaia, che non riesce a volare alto con progetti credibili ed affidabili. Ma sul tema coinvolgerò doverosamente anche l’amico Gaetano Puca, che mi ha anticipato una chicca della sua ricerca su Santa Lucia di Capaccio, che sarà oggetto centrale del mio prossimo articolo.


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