Unico Patrimonio. Ottobre 2019 #04 Cilentomondo

Costiera Amalfitana - Solimene

Solimene, fabbrica di ceramica nella quale, nonostante gli spazi industriali, si lavora ancora come nella bottega delle mani. “Paolo Soleri venne a Vietri per cimentarsi con la ceramica e fu subito amicizia con Vincenzo Solimene".

Cultura
Cilento lunedì 23 dicembre 2019
di Vito Pinto
Immagine non disponibile
Vincenzo Solimene - Paolo Soleri © Unico

«Era il 1931 quando a Vietri sul Mare giunse Emilio Cecchi, giornalista del “Corriere della Sera”, formatosi in quel grande laboratorio di idee e di coscienze che era stata “La Voce” di Giuseppe Prezzolini». Non è dato sapere se il giornalista fiorentino abbia avuto questo luogo nel taccuino dei suoi itinerari o vi sia capitato per caso, certamente si fermò quel tanto necessario da poter visitare una fabbrica di ceramica e restare affascinato dal lavoro del torniante. E fu “Il Vasaio”, un articolo giornalistico, ma anche uno dei più bei brani della letteratura italiana che sia stato scritto da Emilio Cecchi attraverso parole “scelte e rare”, come ebbe a scrivere Giuseppe Prezzolini. Nel descrivere quell’uomo che, con le mani umide, faceva salire e formare l’arrendevole argilla in simbiotica armonia, Cecchi non mise il nome, eternando, così, il lavoro di chi, nella bottega delle mani, da secoli costruisce, giorno dopo giorno, una civiltà fatta di argilla. Ma si sa che quel vasaio era il baffuto Vincenzo Solimene padre, ‘u cupaiuolo, come veniva chiamato, che era aiutato, in questo suo lavoro, dai tre figli, Antonio (Totonno), Francesco (Ciccillo) e Vincenzo (Cenzino). Nel 1930, in un libriccino a quadretti, il faentino Dario Poppi, così descriveva l’abile vasaio Vincenzo Solimene, all’epoca alla fabbrica di Vincenzo Pinto insieme a Bonaventura De Martino e a Vincenzo Vigilante, sotto la direzione artistica del prof. Renato Rossi. Scriveva Poppi: «Ricordo Solimene, baffuto e autoritario, che lavorava a “stalio”, a cottimo, quando faceva i “vasi per le alici”, con l’aiuto di tre figli: uno preparava le palle di creta ed altri due portavano via dal tornio le tavole piene di vasi che Solimene foggiava con una rapidità straordinaria tanto che i tre aiutanti facevano fatica a stargli dietro».

Nel 1937 il baffuto cupaiuolo, con il più piccolo dei figli, Vincenzo di 12 anni, affitta i locali della fabbrica Amabile a Marina di Vietri, dando inizio alla "Vincenzo Solimene e figlio", nucleo originario di una impresa che diventerà leggenda. Con la guerra la famiglia Solimene è costretta a cessare l'attività, che riprende soltanto nel 1943, con lo sbarco degli alleati, e il ritorno dell’energia elettrica.

E’ il 1949 quando il ventiquattrenne Vincenzo ha la possibilità di mettersi in proprio, affittando in Via Sciali a Vietri i locali che già furono della MUSA, una società che si era trasferita a Roma, e rilevando tutta l’attrezzatura per la lavorazione della ceramica, pur continuando a collaborare con il padre. La terribile alluvione del 1954 distrusse i già vecchi e fatiscenti locali di Marina, per cui tutta la produzione si spostò nella bottega di Vietri.

Intanto il giovane e ardimentoso Vincenzo aveva avviata la grande avventura con Paolo Soleri. Era il 1951 e il giovane architetto giunse a Vietri per una sorta di richiamo antico che la ceramica esercita sugli animi degli artisti. Soleri aveva avuto una interessante esperienza nello studio di architettura di Frank Lloyd Wright a Taliesin nel West Arizona, un campus di architettura alle pendici delle Mc Dowell Mountains. Venne a Vietri, Soleri, per cimentarsi con la ceramica e fu subito amicizia con Vincenzo Solimene, un’amicizia che porterà il giovane architetto a proporre un’idea progettuale nata tra le sue mani con l'argilla. Guidato dal suo istinto e conquistato dalla concretezza di Soleri, Vincenzo Solimene accetta con entusiasmo la proposta. Il terreno era già stato acquistato nel ‘50 ma i lavori per lo sbancamento della roccia procedettero a rilento. Ci furono poi rallentamenti dovuti a varie sospensioni imposte dalla Soprintendenza che, partendo con il porre problemi di compatibilità con i vincoli paesaggistici, finì con lo scatenare una querelle sull'architettura della fabbrica, rivelatasi subito una sfida, un sogno, un progetto lungimirante come soltanto uomini coraggiosi potevano osare, guardando al futuro e credendo in un progetto ambizioso nonostante il periodo di povertà, ma anche di ripresa economica postbellica che l’Italia stava attraversando. Ancora una volta, come era successo con il “Vasaio” di Emilio Cecchi, la storia si fa leggenda con Paolo Soleri e Vincenzo Solimene. E fu la fabbrica, entrata in esercizio nel 1954, pochi mesi prima della tragica alluvione, che ancora oggi mostra la sua facciata a forma di poppa di una nave.

A guardarla nelle sue altezze, con le vetrate triangolari a interruzione di anforette con il fondo a facciavista, ora in cotto vietrese e a tratti a fasce verde ramina, viene subito alla mente che quel progetto fu una sfida, vinta brillantemente non solo del grande Soleri, ma anche da don Vincenzo Solimene (come ormai tutti chiamavano il giovane figlio del vasaio). La fabbrica, così come ancora oggi si presenta nella sua maestosità, è il sogno ardito ma compiuto di un imprenditore, un uomo del mondo ceramico, apprezzato per le sue doti di umanità e generosità, per le relazioni che aveva con i suoi dipendenti, per lo spazio di immagine che aveva costruito, con accortezza e lungimiranza, in un vasto pubblico internazionale, tra potenti della storia e personaggi di cultura, di arti. Con sapienza antica rare e preziose erano le parole di don Vincenzo, ed arrivavano sempre opportune, al momento giusto… come i ricordi.

Con l’aumento della produzione e la diversificazione dei manufatti, nel 1969, presentandosi l’occasione, don Vincenzo acquistò il grande complesso dell’ex convento (‘u munastero), già Vetreria Ricciardi. Altra sfida, altra avventura che faceva registrare una crescita economica per il paese, che aveva visto, negli anni immediatamente dopo la guerra, la scomparsa dei cantieri navali di Marina e, dopo l’alluvione, delle fabbriche di tessuti a Molina e Vietri e della stessa vetreria Ricciardi. La Solimene cresceva, invece, dando speranza ad una comunità che vedeva sempre più assottigliare le sue possibilità produttive.

Ancora oggi la fabbrica di Via Madonna degli Angeli, nata dalla roccia che incombeva sulla stradina e la sottostante piazza, continua ad essere la preziosa quanto unica testimonianza italiana di un progetto di Paolo Soleri, architetto che negli anni successivi e sino alla morte ha pensato, costruito e vissuto il progetto di una città prototipo in arcologia: Arcosanti in Arizona. E in quella città in “esperimento” Paolo Soleri fuse in bronzo alcune campane per il suo amico Vincenzo Solimene, recentemente sospese su una immaginaria, moderna polena a fronte di quel mare dove miti e leggenda, storia e storie si sono incontrate ed hanno vissuto in armonia, raccontata in mille segni e disegni, in una gioiosità di cromie ceramiche da decoratori, scrittori, poeti, pittori, attori e personaggi del bel mondo internazionale. “To Enzo belissimo maestro” scrisse Quincy Jones sul piatto che in fabbrica gli venne chiesto di autografare, uno dei piatti appesi alle pareti dell’ufficio, che testimoniano le presenze di personaggi come Burt Lancaster, Tina Turner, John Travolta, Charlize Theron, Lucio Dalla e tanti altri che in qualche modo hanno voluto legare il loro nome alla storia di questa fabbrica di ceramica nella quale, nonostante gli spazi industriali, si lavora ancora come nella bottega delle mani.

Così da una ‘ngogna (angolo) di muro iniziò la storia della famiglia Solimene che è continuata nei decenni e continua ancora portando il nome di Vietri sul Mare in tutto il mondo con la sua produzione ceramica; ovunque nel mondo è conosciuto il decoro 18, il pulcino, divenuto marchio di fabbrica e multicolore trionfo di tavole imbandite.

Una storia, quella di Vincenzo Solimene, che è anche una storia di paese, autentica, vera, come quelle di una volta che si raccontavano nelle fredde sere d’inverno accanto al braciere o al camino acceso, mentre l’uomo di casa modellava nell’argilla, in proprio, asinelli o pastori da decorare a freddo: era quel poco extra che aiutava a vivere con un po’ di decoro in più.

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