“È per questo che, vissuto nella Palestina duemila anni fa, continua a vivere nella storia che egli stesso ha creato e in quella che ciascuno di noi vive, nella propria coscienza”

Il Gesù di Francesco

Il bambino descritto nei capitoli evangelici non è l’enfant terrible sul quale hanno fantasticato gli apocrifi per rispondere a curiosità devozionali troppo umane; somiglia a tutti i bambini del mondo.

Attualità
Cilento domenica 08 settembre 2019
di L. R.
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Il Gesù di Francesco © web

Il papa emerito ha regalato alla cristianità e all’umanità intera un suo bios ragionato di Gesù di Nazareth. La figura del Cristo, nonostante le nuove tendenze nel campo della ricerca storica e la convinzione, oggi più radicata, che il presente confrontato con il passato mostra sempre più chiari i segni della sua alterità rispetto a quest’ultimo grazie alla consapevolezza degli evidenti cambiamenti, non smette d’incuriosire. Il dato è confermato dall’esame dei cataloghi delle librerie, che mostrano con chiara evidenza quanto sia attuale il desiderio di conoscere sempre più chi sia veramente Gesù, anche rispetto alla sua dimensione storica. La tradizione di Gesù presenta due protagonisti in dialogo: Lui, che inizia un’esperienza di vita, fatta di gesti, parole, azioni e gli stessi narratori che ne sono in modo determinante influenzati senza essere per niente degli algidi testimoni di ciò che vedono e sentono. Perciò, ad un’analisi scevra da pregiudizi risulta evidente che la fede è presente fin dagli inizi di questa tradizione, nata già come espressione di fede dei discepoli, i quali percepiscono lo stretto legame che genera fiducia ed è consolidato da ciò che odono e vedono compiere. Inoltre, un avvenimento è storico non solo perché accaduto, ma anche perché lascia una traccia importante, fino ad essere decisivo anche nelle scelte di vita di chi vi riflette. E’ per questo che Gesù, vissuto nella Palestina duemila anni fa, continua a vivere nella storia che egli stesso ha creato e in quella che ciascuno di noi vive, nella propria coscienza, quando è in grado di cogliere in profondità la sua parola. Da qui la necessità, per ogni generazione, di rileggere i Vangeli per determinarne l’eco con la propria esperienza esistenziale. In questa prospettiva va letto il lavoro del papa emerito, il quale non ha paura di confrontarsi anche con un tema molto delicato relativo ai primi due capitoli dei vangeli di Matteo e di Luca, in tutto 180 versetti che hanno ispirato la cultura occidentale in tante manifestazioni di arte e di religiosità. Benedetto XVI è consapevole delle difficoltà alle quali sarebbe andato incontro nel “dialogo con i testi”, cosciente che “questo colloquio nell’intreccio tra passato, presente e futuro” non sarà mai definitivo perché è soggetto all’interpretazione, la quale si colloca sempre un passo “indietro rispetto alla grandezza del testo biblico.” Ma il pontefice vuole dimostrare che nell’evoluzione delle ricerche storico-critiche non è vero che la figura di Gesù sia diventata sempre più indefinita e si conosca poco del Gesù storico perché condizionati da quanto ha sviluppato in seguito la fede in Lui. Il Papa, corroborato da una lunga vita di studi e alla fine di un’appassionata ricerca, afferma che se l’interpretazione della Bibbia richiede la fede, ciò non significa minimamente minare la serietà scientifica della ricerca storica. E lo dimostra prendendo in esame l’infanzia di Gesù. Questi, infatti, proviene “dal mistero di Dio, che nessuno conosce, ci viene descritt(o) dai cosiddetti racconti dell’infanzia non allo scopo di svelarne il retroscena ma precisamente per confermarne la misteriosità”, come J. Ratzinger ha scritto in Introduzione al Cristianesimo. Questa premessa gli consente di sviluppare le sue argomentazioni facendo riferimento al metodo della lectio divina: insieme di letture critiche e preghiera, continuo colloquio intimo con Dio che contribuisce a rendere attuale il testo. Il bambino descritto nei capitoli evangelici non è l’enfant terrible sul quale hanno fantasticato gli apocrifi per rispondere a curiosità devozionali troppo umane; somiglia a tutti i bambini del mondo. Il pontefice non vuole soddisfare curiosità biografiche su aspetti secondari, ma propone una riflessione teologica articolata in un percorso culturale che non nasconde i riferimenti a dispute storiche. Per meglio rispondere a domande di senso egli si chiede che cosa intendessero Matteo e Luca, necessario riferimento alla componente storica dell’esegesi. E’ la premessa per verificare se ciò che è stato scritto è vero e, soprattutto, se ci coinvolge perché il quesito sul rapporto tra passato e presente è parte integrante della interpretazione; non inficia la serietà della ricerca storica, ma l’accresce.

Il personaggio oggetto delle analisi del pontefice diventa il portatore della gioia perché è un avvenimento che ha mutato il senso della storia, non un mito. Infatti, “Gesù è nato in un’epoca determinata con precisione”. Nessuno può più smentire che: “Egli appartiene ad un tempo esattamente databile e ad un ambiente geografico esattamente individuato: l’universale e il concreto si toccano a vicenda.” Queste considerazioni sono un evidente frutto del convergente rapporto tra senso letterale e spirituale nella Bibbia. Infatti, dalla sua lettura desumiamo i fatti, mentre l’allegoria ci apre la mente sull’oggetto del credere, il senso morale invita a operare e l’anagogico indica la prospettiva dove tendere. E’ l’inizio di un pellegrinaggio interiore che guida nella ricerca di un solido fondamento ad una luminosa speranza. Benedetto XVI comunica tutto ciò con una semplicità di scrittura che costituisce un evidente armonico traguardo di spirito e di cultura. Un esempio è fornito dalle parole nelle quali riassume lo stupore di Maria quando può coccolare il suo Figlio: “Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio(…) Ella sente insieme che il Cristo è il suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella guarda e pensa: Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. E’ Dio e mi assomiglia! Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e vive.”[1].

Questa opera si affianca al saggio scritto da Giovanni Paolo II e che aveva un taglio più magisteriale. Francesco non ha questa urgenza, presenta la vita di Gesù nei commenti che accompagnano le sue omelie durante la messa a Santa Marta e i suoi interventi ai pellegrini ricevuti nelle udienze generali[2]. Egli intende consolare chi vive una condizione dello spirito che ricorda quella prefigurata da Ezechiele quando descrive la valle delle ossa inaridite. Infatti, il nostro quotidiano è scadenzato da vicende che ci danno la sensazione di essere precipitati inesorabilmente verso la morte della speranza per le assurde manifestazioni di violenza, per la diffusione della droga, per i tanti infanticidi, per il ricorso all’apparente liberazione dell’eutanasia. Un senso di repulsione e di stanchezza pervade il nostro animo. Si guarda in giro alla ricerca di una possibile liberazione per spezzare queste oppressive catene e ritornare nella terra promessa. Una traccia per questo approdo è delineata dall’invito a superare le tentazioni, a trasfigurarci dissetandoci alla fonte di Cristo per riacquistare la vista, mentre cerchiamo di uscire dalla tomba del nulla, tanti Lazzaro del XXI secolo segnati dalla nostalgia della risurrezione. Molti vivono un dramma fisico ed esistenziale che si conclude con la morte. La notizia turba profondamente e lo stesso Gesù non riesce a trattenere le lacrime, particolare che lo rende veramente vicino a tutti noi, anzi perfettamente simile; da qui la sua grandezza e unicità nel far intraprendere il passaggio dalla morte alla vita: Pasqua per tutti coloro che si trovano nella stessa condizione. Gesù sente la lacerazione di un turbamento che genera profonda angoscia e impartisce comandi che diventano altrettanti segni e tappe del pellegrinaggio verso la vita perché la nostra risurrezione è un obbedire a tre imperativi: “esci, liberati e vai”[3]. Così si smuove la pietra di una esistenza di schiavitù, un raggio di luce riscalda il cuore, una voce amica rompe il silenzio del nulla e lacrime di compassione irrorano la rigidità di chi è precipitato in una condizione priva di senso. Dio, innamorato dell’uomo, tende la mano e lo salva tramite l’umanità di Gesù, che è profondamente fedele agli amici da non sopportare le loro sofferenze.

Il Messia afferma deciso: “Io sono la risurrezione e la vita”. Non usa un verbo al futuro, ma al presente per illuminare di certezze la nostra speranza secondo una scansione dei termini - prima risurrezione, poi vita - agli antipodi rispetto alla nostra predisposizione logica per significare che egli è la risurrezione di vite spente ma che vuole risvegliare. Ciò è possibile se, liberati dalle bende di una umanità in disfacimento, si esce con determinazione dalla tomba del male che aggrava la condizione di una umanità moribonda. Anche noi, Lazzaro del XXI secolo, possiamo considerare i legacci della condizione umana bende di neonati che rinascono perché la pietra che ci incolla al buio della tomba è stata rimossa e la luce torna ad illuminare la nostra vita liberandoci dall'angosciante idea della morte come fine definitiva.

(cont.)



[1] J. RATZINGER – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli, 2012

[2] J. M. BERGOGLIO (Papa FRANCESCO), Marco. Il Vangelo del segreto svelato, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2017.

[3] Gv 11, 1-44

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