Il monte più alto della Campania (1.899 m) che si gode lo splendido isolamento

Cervati, tre comuni e tesori da estrarre e riportare in vita

Oggi, c’è un risveglio di interesse verso la montagna da parte dei pochi giovani che sono ancora protagonisti del comunità dei borghi montani.

Cultura
Cilento lunedì 13 novembre 2017
di Bartolo Scandizzo
Immagine non disponibile
Monte Cervati © unico

La montagna e il monte! Potrebbe sembrare una ripetizione ma, in realtà, si tratta di due modi diversi di volgere lo sguardo verso l’alto: il primo per capire come una caratteristica territoriale può essere utilizzata sotto l’aspetto del reddito, il secondo per godere l’ambiente naturale caratteristico di una montagna.

Il monte Cervati si presta bene sia per valutare l’impatto della “Montagna” sotto l’aspetto del suo sfruttamento economico sia per quel che riguarda la valenza naturalistica e ambientale.

Da tempi remoti il Cervati è sempre stata una montagna sui cui altipiani e pendii hanno trovato pascoli ed acqua centinaia di pastori e, un tempo, anche molte famiglie che praticavano un’agricoltura i cui prodotti erano destinati all’autoconsumo. Anzi, il più delle volte erano proprio i pastori a darsi a questo tipo di coltivazioni.

Per più di un secolo (tra l‘800 e il ‘900) si consolidò anche la pratica della transumanza che vedeva transitare migliaia di armenti destinati a svernare nella pianura del Sele sia verso Persano sia con destinazione Capaccio Scalo.

Figli e nipoti di quelle generazioni di pastori oggi vivono proprio nei comuni dove, un tempo, i loro avi trovavano bivacco nei mesi freddi e delle piogge. Con l’arrivo, poi, della primavera che faceva rinverdire i pascoli in quota, si risaliva Valle del Calore fino a Piaggine e Valle dell’Angelo ed al paese era una grande festa veder sfilare per le strade i greggi (oltre 50.000 capi all’inizio degli anni ’50) controllati dai cani e dai garzoni che riuscivano così a rivedere la famiglia e gli affetti più cari …

Sul versante Nord del Cervati, quello che affaccia nel Vallo di Diano, erano i comuni di Sanza e Monte San Giacomo a fornire il “capitale” umano alla montagna con centinaia di animali vaccini (oltre 20.000 negli anni ’50) che si spostavano gradualmente dai pascoli più bassi a quelli in quota. Anche in questo caso la transumanza verso la Basilicata lungo il Basento garantiva inverni più miti ad uomini e bestie.

Con lo spopolamento delle aree interne dovuto a fattori coincidenti (giovani più istruiti o anelanti uno stile di vita migliore, genitori passati a lavori impiegatizi, emigrazioni all’estero …) anche la montagna ha perso la sua attrattiva ed è stata lasciata a se stessa, senza vita.

Anche l’attività legata all’industria del legno ha ceduto il passo ad una consapevolezza ambientalista che è sfociata negli anni ’90 alla creazione del Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni.

Solo l’assunzione da parte egli enti montani ha frenato per lungo tempo il fenomeno dell’abbandono: oltre 300 sono stati i forestali assunti dalla comunità montana Calore Salernitano.

Oggi, c’è un risveglio di interesse verso la montagna da parte dei pochi giovani che sono ancora protagonisti del comunità dei borghi montani. Infatti, ance grazie agli incentivi regionali, si vedono giovani e meno giovani impegnati a prendersi cura di greggi di pecore e capre, di mandrie di mucche e cavalli (saranno oltre 2.500 gli animali al pascolo tra i due versanti). Da un po’ di tempo perfino si riprende l’impianto di coltivazioni tipiche oltre i 1000 metri come piantagioni di ciliegi, mandorle, nocciole, patate …

Insomma, c’è un po’ vita oltre la retorica dello spopolamento che ha falcidiato intere comunità.

Come è da tempo che le piccole attività ricettive extralberghiere vivono di vita propria grazie al fatto che centinaia di escursionisti (a piedi e a cavallo e in ogni stagione) arrivano sul monte per sport, attività all’aria aperta e per raggiungere il santuario della Madonna della neve sia nella versione in chiesa sia in quella “prigioniera” nella grotta posta sul dirupo Sud della montagna.

Il 4 agosto di ogni anno, la montagna si popola grazie alla tradizionale festa della Madonna della Neve. È la confraternita di Sanza dedicata al culto della Madonna che anima la cima del monte per una quindicina di giorni che viene letteralmente presa d’assalto dalla popolazione residente e da chi rientra nella terra dei padri per le vacanze. Sul versante di Piaggine si svolge anche un rito “laico” da decenni, ormai, sono in tanti i giovani del paese che si accampa intorno al rifugio della forestale in località “Chianodde” per celebrare l’ingresso nell’età adulta con una sorta di “iniziazione”. Il fenomeno è stato ben descritto da Franco Domini, psicologo, che scrisse un libro dal titolo “Generazione 0”.

Il Cervati è anche un bene ambientale che dà lustro all’intera area parco in quanto è il monte più alto della regione Campania anche se non è molto conosciuto né all’interno del territorio in cui si trova né nel resto della regione stessa. Le faggete che vi crescono sono uno spettacolo della natura che fanno la felicità di chi, abitualmente e non, sale verso il monte sia d’estate (la frescura che si trova è un vero ristoro per il corpo e per l’anima) sia d’inverno quando la neve che vi cade abbondante rende ancora più suggestivo l’ambiente rarefatto sia nell’aria sia nello spirito chi vi si trova immerso.

Da oltre 10 anni, grazie alla dedizione di giovani amanti della natura come Pepino D’Amico, Angelo Coccaro e Giuseppe Musto ha preso vita un evento con lo scopo di invogliare giovani e meno giovani a salire in montagna per godere lo spettacolo della coltre bianca che tutto copre. Si tratta della Festa della neve.

La manifestazione si tiene tra febbraio e marzo di ogni anno e il perno fisico intorno al quale gira la “giostra” bianca è il rifugio Rosàlia in località “Chianodde” oggi gestito da Riccardo ha abbracciato con entusiasmo l’idea che il Cervati può essere ancora un’occasione di reddito per chi ama realizzare il suo progetto di vita qua dove si è nati.

I tesori del monte non si esauriscono a quelli descritti … c’è acqua, molta acqua nelle viscere del monte. Anche se i fiumi (Calore Salernitano, Festolaro, fiume Bianco) che dal monte prendono vita sono ridotti a torrenti stagionali, le abbondanti nevicate invernali, le sorgenti che vi annidano e che sono quasi tutte captate, la rete degli acquedotti che dalle sue pendici prendono slancio per dissetare intere comunità rendono il Cervati un “compagno” di vita di cui non si può fare a meno. Purtroppo non sono in tanti a riconoscerlo e a rendergliene merito almeno ricordandosene una volta tanto!

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