L’Opinione di Italo Abate, Studioso del Mediterraneo antico

Le Tre Grazie. L’incanto della Bellezza

Tratto da “Ambiente e Cultura Mediterranea, ottobre 2019”​.

Cultura
Cilento martedì 15 ottobre 2019
di Italo Abate
Immagine non disponibile
Le tre grazie di Botticelli © Unico

Il gruppo scultoreo delle Tre Grazie fa sorgere in ognuno di noi la domanda se la Bellezza esiste realmente o se la sua percezione sia così diversificata da risolvere la questione in una sorta di dissoluzione. Le percezioni riferite alla bellezza sono infatti molto diverse e dipendono dalle realtà di ciascuno, dai periodi storici, dai luoghi in cui si vive; la bellezza, certamente, è una convenzione sociale che si modifica di continuo, è un tema soggettivo, è una manifestazione di qualità che preesistono e, quindi, vengono prima delle diverse soggettività che la bellezza colgono e interpretano. Forse. La bellezza è una creazione nostra o una scoperta che implica contemplazione? Probabilmente l’una e l’altra. La questione, posta in termini sintetici può essere così espressa: la bellezza risiede interamente nelle cose e spetta alla mente dell’osservatore solo di riconoscerla, o la bellezza non è inerente alle cose e si forma nella mente di chi osserva e, quindi, tutto dipende dalle condizioni del soggetto? Le condizioni esistenziali, culturali, geografiche, storiche determinano infatti la percezione della bellezza oppure ci sono dimensioni caratteristiche universali della bellezza? Sono interrogativi ai quali appare difficile fornire una risposta univoca.

Eppure, il gruppo scultoreo delle Tre Grazie pare superare queste incertezze dottrinali sulla bellezza per assorbirne la verità come affermava Platone:

«La bellezza è lo splendore del vero»

e, nelle Tre Grazie si ritrova sia l’arte che la bellezza perché c’è comunicazione, si provano emozioni, si producono sentimenti, si avverte l’incanto della bellezza, si scopre l’armonia dell’insieme, si percepisce la sintonia delle vibrazioni tra noi e loro; il rapporto è subliminale, si genera piacere ma anche dolore, si è rapiti dalla bellezza attraente ma si rimane anche prigionieri della stessa come significativamente ci raffigura l’immagine omerica delle sirene che attraggono i naviganti con la bellezza del loro canto, ma poi li divorano impietosamente.

Esiste quindi una ambiguità della bellezza: da un lato il rapporto con il soggetto che la contempla e dall’altra la sua stessa natura; la bellezza è cioè allo stesso tempo logos e caos, ovvero forma bella e allo stesso tempo deforma, cioè bellezza grottesca, impura ma anche ricca di fascino per quelli che sono attratti irresistibilmente dal male perché lo considerano bello; probabilmente no, in quanto la bellezza è sempre grazia, forma, proporzione, armonia, dolcezza, stile e la differenza tra le qualità sopraesposte va chiarita terminologicamente: ciò che è bello è bello; ciò che piace non è detto che sia bello, per cui può essere piacevole il grottesco, il torbido, l’impuro ma certamente ciò non è bellezza. La bellezza quindi non coincide con il piacere, non è equiparabile al “mi piace”; essa è un “sistema ordinato”, cioè un ordinamento, una disciplina a livello soggettivo per la vita di ciascuno in cui vi sono diversi piani di bellezza: la dimensione corporea espressa in particolare dal viso; il modo di vestire della persona e il suo contegno, gli abiti; l’anima, con i suoi sentimenti nobili; il pensiero, cioè la visione filosofica della vita. Questi diversi elementi costitutivi della bellezza erano raccolti dagli antichi greci nell’immagine delle Chárites raffigurate in uno dei gruppi scultorei più conosciuti nell’antichità, quello delle Tre Grazie, ma forse non altrettanto noti in età contemporanea. I significati iconografici di cui è carica la raffigurazione delle Chárites sono complessi ed insieme mutevoli nel tempo; essi sono diversi sia nell’età antica che in quella moderna, sia in merito alla natura dell’originale (un affresco, una scultura, un dipinto), sia dell’autore (Pāsĭtĕlēs, Stephănos, Scuola di Afrodisia) o della cronologia (I secolo a.C., II secolo d.C., …). La questione era già allora tanto complessa che Pausania ammette di non sapere chi fosse il primo artista, scultore o pittore, che avesse rappresentato le giovani fanciulle nude ed in quella specifica figurazione. È difficile dare risposte a queste domande, è però facile apprezzare la bellezza delle Cariti in qualunque forma artistica siano state prodotte. La critica storica assegna la datazione al I secolo a.C., quindi nella tarda età repubblicana, agli albori del principato augusteo, associandone l’autore alla scuola di Pāsĭtĕlēs ed altri al gruppo di Stephănos, scultori con la loro officina in Campo Marzio. Il gruppo sarebbe quindi una creazione plastica dell’ultimo periodo dell’ellenismo, probabilmente preceduta da una raffigurazione pittorica poi trasferita in marmo in età romana; nella scultura di epoca romana l’elemento fondante, costituito dalla nudità delle Grazie e dall’atteggiamento dei corpi, sarebbe da collegarsi all’Afrodite di Prassitele.

Ma chi erano le Tre Grazie? Esse sono figlie di Zeus, rappresentano le divinità della Bellezza, in greco Cariti, vivono sull’Olimpo dove fanno parte del coro di Apollo; sono tre: Euphrosine (Serena), è la letizia della bellezza interiore; Aglaia (Splendente) è lo splendore della bellezza fisica e Thalia (Fiorente) è il frutto della pienezza che scaturisce dall’unione delle due; sono associate al concetto del dono: una dà, l’altra riceve, l’ultima restituisce. Esiodo ne parla nella Teogonia, Seneca si pone la domanda “Perché danzano in cerchio tenendosi per mano?”, Botticelli le dipinge nel 1482, Raffaello nel 1584, Canova le scolpisce nel 1817 e Foscolo le canta nel 1827; ben prima di loro in età ellenistico-romana ne sono state scolpite numerose copie o ritratte in affreschi e mosaici in tutto l’impero romano. A conclusione dello scenario mitologico appare opportuno un approfondimento sulla rappresentazione del gruppo sia in termini scultorei che nei dipinti e affreschi, sia sul piano storico.

Seneca si rifaceva a Crisippo, autore di un trattato ormai smarrito del III secolo, sulla generosità, cioè sul “come comportarsi con grazia nell’offrire, accettare e restituire benefici”; e, lo stesso Crisippo, per meglio trasmettere i propri insegnamenti li aveva collegati alle tre Chárites; Seneca riferendosi alle Grazie sofferma le sue riflessioni sul triplice ritmo della generosità, sul modo col quale i tre momenti del rendere grazie si debbano intrecciare in una danza circolare senza alcuna interruzione; egli esalta le Cariti perché abbigliate di vesti trasparenti in quanto i benefici si devono vedere come simbolo della liberalità che si esplica appunto nel dare, ricevere, restituire. Nelle rappresentazioni i corpi sono identici, giovanili, flessuosi, nudi; anche i volti sono uguali, di cui uno oscuro, sotto tre diverse e distinte acconciature; la posizione è la stessa: chi per prima ha dato, quella di sinistra che ha avviato il percorso del dono, volge il capo a destra verso l’esterno come avesse già dimenticato la liberalità compiuta; quella di destra è colei che ha ricevuto il dono che regge nella mano sinistra, mentre quella di mezzo, abbracciando le altre due, gira le spalle al mondo in cui vive per ricongiungersi con lo spirito che si è creato dall’insieme delle tre fanciulle. Tutte le figurazioni trasmettono una sensazione di ordine, di grazia, di armonia; si percepisce il senso della bellezza dal loro armonioso intrecciarsi significante la circolarità tra la bellezza esteriore (Aglaia) e quella interiore (Eufrosine) con le quali si può raggiungere la pienezza dell’esistenza (Talia). Tra le tante rappresentazioni ne sono state scelte cinque; una prima figurazione è quella delle Tre Grazie presenti al Museo del Louvre di Parigi probabilmente del II secolo d.C. (Fig.1); il gruppo statuario è una replica di età ellenistica del II o I secolo a.C.; la scultura fu rinvenuta a Roma nei pressi di S. Gregorio al Celio prima del 1608, acquistata poi dal cardinale Scipione Borghese nel 1608. Le tre ancelle furono ripristinate da Nicolas Cordier nel 1609 con l’aggiunta di teste e parte degli arti; un ulteriore restauro è avvenuto nel 2009 da parte di Anthony Pontabry; le parti antiche sono in marmo pario, quelle seicentesche di restauro sono in marmo di Carrara; altezza 119 cm, larg. 85 cm. Le tre donne nude sono il simbolo della bellezza delle arti e della fecondità; il componimento si sviluppa lateralmente col ritmo curvilineo delle anche, l’inclinazione delle teste e le braccia spiegate della figura centrale. I tre corpi hanno una spiccata flessuosità accentuata dalla curvatura della linea dei fianchi, funzionale all’esaltazione del contesto simmetrico dei corpi.

L’insieme è un’armonia di contrapposizioni e convergenze generate proprio dall’atteggiamento flessuoso dei corpi; la sinuosità determina la raffinatezza stilistica del gruppo, e, infatti, sono proprio i ritmi sinuosi delle tre ancelle che sono uno dei motivi fondanti del suo fascino; i corpi, oltre ad essere ben bilanciati tra di essi, presentano un raffinato equilibrio anche nelle loro dimensioni. Tutto ciò si può definire bellezza. La seconda figurazione è un affresco pompeiano della tarda età repubblicana-I secolo d.C., dimensioni 63 cm x 60 cm., in esposizione nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Fig.2). La terza riproduzione è costituita dalle Tre Grazie del Botticelli inserite nel contesto della Primavera (Fig.3). Le immagini sono rappresentate in modo diverso dalla consueta raffigurazione: non sono nude ma ricoperte da un velo trasparente che avvolge tutto il loro corpo; le stesse sono legate una all’altra dall’intreccio delle mani a simboleggiare l’unità, il legame di consanguineità tra sorelle; colpisce molto che i loro corpi siano slanciati verso l’alto ed allacciati con le mani in una posizione circolare come se stessero danzando; hanno infatti una posizione dinamica, di movimento rispetto a precedenti figurazioni che sembrano statiche; la capigliatura è folta e fluente sulle spalle; la fanciulla di sinistra guarda con dolcezza la Grazia centrale, quella di destra rivolge lo sguardo verso le mani intrecciate con la figura di sinistra tese verso l’alto, mentre quella centrale rivolge lo sguardo a quella di sinistra. I corpi hanno una altezza maggiore, sono più longilinei rispetto alle altre raffigurazioni; inoltre, i veli da cui sono ricoperti presentano una raffinata merlatura ed il collo delle Grazie laterali è ornato da due collane di cui una termina con un medaglione a più punte con perle incastonate e l’altra con pietre preziose di cui quella centrale di colore rosso rubino. La diversità della rappresentazione è resa maggiormente evidente dal fatto che le tre ancelle sono rappresentate in un contesto scenico ove sono presenti altre figure, dal legame tra di loro reso evidente dalle mani che ciascuna intreccia con l’altra e dalla serenità dei tre volti che appaiono felici di essere e di fare. Possiamo definire l’insieme come armonia.

La quarta iconografia è il dipinto di Raffello ove le Tre Grazie offrono le mele delle Esperidi (Fig.4); si tratta di un olio su tela in esposizione al Musée Condé di Chantilly.

La quinta raffigurazione è il gruppo statuario del Canova (Fig.5). Ne esistono due versioni di cui una all’Ermitage di S. Pietroburgo ed una replica successiva itinerante tra la National Gallery of Scotland di Edimburgo e il Victoria and Albert Museum di Londra; tra i due gruppi vi sono insignificanti variazioni. Il gruppo scultoreo fu realizzato a Roma tra il 1813 e 1816 ed esso incarna l’estetica del neoclassicismo, ovvero, il movimento culturale che tra il Settecento/Ottocento promuove il ritorno all’arte greco-romana inteso come modello di perfezione ideale; Canova, maggiore interprete italiano dello stile neoclassico, vive nel periodo napoleonico un momento di particolare fortuna in quanto diventa ritrattista ufficiale dell’imperatore. Giuseppina Beauharnais, prima moglie di Napoleone, gli commissiona infatti nel 1813 il gruppo delle Grazie che saranno ultimate nel 1817 e che lei stessa non potrà mai ammirare perché morirà nel 1814. Le tre figure femminili alte 182 cm rappresentano le figlie di Zeus, dee della bellezza, Aglaia, Eufrosine e Talia che infondono gioia e amicizia tra dèi e mortali. Nella trasfigurazione dell’opera Canova si ispira sia alle immagini classiche, sia al rinascimento italiano rappresentando le tre giovani donne unite in un abbraccio; la figura centrale che nell’iconografia tradizionale è collocata di spalle qui è rivolta invece verso lo spettatore, mentre le altre si voltano verso di lei; la disposizione delle gambe, ove il piede sinistro è poggiato pienamente a terra e quello destro si appoggia sulla punta, suggerisce un armonico movimento di spinta circolare che raccoglie le fanciulle in una sorta di gioioso girotondo. Le giovani donne sono cinte da un drappo di tessuto che nasconde in parte le loro nudità; unico ornamento ambientale è definito da una colonna (o altare parallelepipedo, a seconda della versione) su cui poggia una delle Grazie e che garantisce la stabilità dell’insieme. La scultura personifica quello che nel neoclassicismo è considerato l’ideale di bellezza assoluta, ossia equilibrio della composizione e ricerca di una forma pura, idealizzata; la grazia delle figure, il loro candore e la loro quieta sensualità esprimono la perfezione formale dell’opera. Le Grazie ottengono un successo clamoroso tanto che lo scrittore francese Stendhal si reca a Roma proprio per ammirarle; nel 1814 il duca di Bedford commissiona a Canova una copia delle Grazie che è il gruppo scultoreo ora esposto a Londra. In questo secondo gruppo, molto simile al primo, solo una colonna dorica sostituisce l’altare. Dopo la morte di Giuseppina Beauharnais, l’opera passa a suo figlio Eugenio; le Grazie rimangono nella sua residenza fino a quando il figlio di Eugenio, Massimiliano di Leuchtenberg, sposa Maria di Russia, e Le Grazie vengono trasferite al Palazzo Mariinskij di Pietroburgo. Nel 1901 sono acquistate dal Museo Ermitage ove sono tutt’ora in esposizione.

Tutte le rappresentazioni delle Gratiae suscitano emozioni, stupore, sentimenti; creano un turbamento d’animo, si rimane stupiti, ti fanno sentire qualcosa, ti recano il messaggio di ciò che è bello, sublime, fascino, meraviglia, armonia, splendore; sono infatti proprio questi termini che definiscono la Bellezza.

Sublime, è ciò che affascina e respinge, che giunge al di sotto della soglia più alta, che dà una percezione intensa della bellezza tale da riceverne un trauma, una ferita; trauma che colpì Stendhal nel suo viaggio in Italia quando, osservando opere d’arte, si sentì male come egli stesso riferisce «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere».

Fascino, significa malia, incantesimo, attrazione, in questo caso le Tre Grazie perché si è incantati dalla loro bellezza.

Meraviglia che secondo Platone è il sentimento che lo splendore della bellezza suscita in noi.

Armonia, è ciò che fa di elementi diversi una cosa sola; lo stesso Eraclito si esprime in questi termini «Da elementi diversi che discordano si ha la più bella armonia». È proprio questo che rappresentano le Chárites, una unione, un accordo, una concordia da cui scaturisce la bellezza dell’essere.

Splendore, si riferisce a ciò che brilla, splende, è chiaro, lucente e quindi il richiamo è alla luce che è il principale ingrediente della bellezza; le Cariti sono un’opera d’arte che grazie alla maestria dell’autore sono vivificate dalla luce che le fa risplendere attivando il passaggio da ciò che è vero a ciò che è bello; del resto lo spesso Platone, come già riportato in ante, asseriva che «La bellezza è lo splendore del vero».

Sono infatti tutte queste parole che ci consegnano l’incanto della bellezza in tutte le sue più autentiche espressioni della vita.

Tratto da “Ambiente e Cultura Mediterranea, ottobre 2019”

Lascia il tuo commento
commenti
Le più commentate
Le più lette