Unico Patrimonio. Gennaio 2020 #01 Cilentani

Carmine Carrera

Era il 27 febbraio del 1994, un giorno freddo, quando la ruota del tornio di Carmine Carrera si fermò per sempre: il vasaio aveva smesso la sua ricerca della forma, l‘eterno divenire del suo essere.

Cultura
Cilento mercoledì 19 febbraio 2020
di Per gentile concessione di Vito Pinto e Graus Editore
Immagine non disponibile
Carmine Carrera al tornio © Unico

Tratto da Viaggio inverso. Letterati, artisti e dive sulla Costa d’Amalfi

«I popoli antichi parlavano del lavoro del torniante come del più bello e difficile fra quelli artigianali»

annotava Irene Kowaliska nel suo diario vietrese. E’ il mestiere della creazione, quella in cui la materia si fa forma tra le mani di un artigiano. E tanto più è importante quel mestiere quanto maggiore è la capacità del torniante di percepire, ascoltare l’intenso messaggio del divenire che la creta trasmette al suo modellatore. E’ il racconto della vita, che si fa simbiotica armonia tra l’uomo e la terra. E per raccontare questo eterno divenire Emilio Cecchi ha attinto “parole scelte e rare” dal suo vocabolario delle emozioni. Eppure è un lavoro uguale da millenni, lo stesso che veniva praticato dai figuli di Cnosso, di Corinto, di Samo, della Magna Grecia e dell’Asia Minore. Il vasaio sa che ogni suo piacere è nelle sue mani, nell’esercizio del loro potere amoroso.

E già questo potrebbe delineare, in completezza, la figura “artigianale” di Carmine Carrera, artista delle mille forme, vasaio che parlava con l’argilla.

Carrera aveva bottega in un angolo nascosto di Vietri sul Mare, a metà strada tra il centro del paese e la marina. Una finestra a contiguità con l’angolo del tornio, apriva lo sguardo sui frastagli della Costiera Amalfitana e il mare di Ulisse dove si ergevano “I due fratelli”, pinnacoli di roccia alzati verso il cielo dal dio Nettuno a memoria di generosità. In questo ambiente scorrevano le ore diurne della quotidianità e quelle serali dei sogni, della ricerca della forma. Era, infatti, in quelle ore in cui più grande è la solitudine dell’artista, quando intorno tutto tace e nell’aria s’ode soltanto il leggero fruscio delle mani sull’umida terra, che Carmine Carrera si dedicava alle meditazioni d’argilla: anche il respiro si sospendeva nell’ascolto della materia. Nel suo essere erede di una tradizione, anche familiare, nel suo costrutto di vasaio Carrera aveva la costante del passato, l’eredità storica del modellare l’argilla e la forza dell’arte nell’innovarla. Alla figlia Teresa, che di sera lo guardava lavorare, diceva: «Sono sempre alla ricerca della forma. La ceramica è sensazione». E furono quelle strutture ardite, che si ergevano, avvinghiavano, costruivano intorno al suo braccio, tra le sue dita, a raccontare il divenire della creazione, in oltre cento forme diverse: giorno dopo giorno, forma dopo forma Carrera elaborava il suo vocabolario della civiltà ceramica vietrese. Oltre centocinquanta le forme create, una diversa dall’altra, come una prestigiosa opera lirica, dove pur essendo sette le note, infinita è la loro disposizione sul pentagramma.

Inizia a poco più di tredici anni il suo gironzolare tra oggetti d’argilla messi ad asciugare, sale di decoro, odori di smalto e vecchie fornaci alte come tre piani. Spesso ricordava il nonno, abile tornitore, e le grida del padre quando lo vedeva aggirarsi intorno ai recipienti dello smalto: “E’ velenoso, vuoi morire? Stai lontano dallo smalto!”. Con il suo libretto di lavoro, a 14 anni, è alla fabbrica del Cav. Negri a Marina di Vietri sul Mare, una faenzera dove lavorava anche Guido Gambone, che subito intuì le capacità del piccolo Carmine: “Questo diventerà uno di quei bravi tornianti che Vietri ha sempre saputo offrire al mondo della ceramica”.

Le sue capacità creative al tornio lo portarono prima alla D’Amico a Molina di Vietri, poi alla Ernestine di Fratte, una bottega messa su dall’ing. Matteo D’Agostino per la donna che amava, Ernestine Cannon, americana, fine decoratrice e creatrice di disegni; spesso la signora Ernestine mandava a chiamare Carrera per disegnare nuove forme da tirare al tornio. In questo laboratorio di idee ed emozioni, Horst Simonis, chimico provetto appena giunto dalla Germania, creava smalti meravigliosi, come il rosso selenio. Poi per Carrera fu un’esperienza di un anno alla “Tre Felci” con Giannino Esposito, Romeo Adinolfi e Diodora Cossa, allievo prediletto del maestro Renato Rossi, quindi da don Raffaele Pinto a Vietri e una breve parentesi con Erica Rossi e con Giovannino Carrano.

Poi, quella sua ansia di ricerca di nuove forme, di scavare nell’intimo del proprio essere vasaio per codice genetico, gli fanno acquistare, nel 1968, un tornio, collocato nell’angolo più intimo della sua bottega, nicchia di pensieri, meditazioni, ascolti, dialoghi, di genialità e creazioni d’argilla.

Mentre lavorava “Ninuccio”, come lo chiamavano gli intimi, era solito accompagnarsi con un sottofondo musicale. Amava la lirica e la musica classica napoletana, era appassionato di ciclismo e tifoso del Napoli. Fischiettando prendeva la giusta dose d’argilla, la sbatteva sulla piccola ruota del tornio e cominciava a farla girare, con quel continuo spingere del piede sulla grande ruota: era un melodioso parlare con la materia. Poi, all’improvviso taceva, accostava l’orecchio all’argilla stretta tra le mani, che cresceva, si accosciava, rinasceva come araba fenice dalla sua apparente caduta: il quel momento ascoltava l’umida terra che suggeriva la forma cui indirizzare le sue mani… Stupiti, si guardava con quanta docilità la materia si lasciava guidare dalle mani di quell’uomo dotato di armonia, musicalità, sensibilità, amore. Diceva ad un apprendista: «lasciati trasportare dalla materia, guida l’argilla senza rabbia, ma con amore e vedrai che tutto sarà automatico». Ritornano alla mente quelle sensazioni scritte da Emilio Cecchi di fronte al vasaio di Vietri: “Non vedevo la mano, ch’era tuffata dentro la creta. E la creta, scagliata dalla ruota, saliva intorno al braccio del vasaio, in forma d’un enorme calice di fiore”.

Ricorda il figlio Franco, anche lui ceramista: «Guardavo mio padre lavorare al tornio e mi rendevo conto che era irraggiungibile. Mi trasmetteva il mestiere, ma non poteva trasmettermi la sua arte».

Un giorno di giugno degli ultimi anni novecentosettanta, nella bottega di Carrera giunse Ernesto Capellina, toscano di Arezzo, giovane docente di lingua e letteratura inglese, che si accompagnava con una splendida ragazza londinese, Betty Hicks. Amanti della ceramica, i due giovani sostarono a Vietri per una visita ai negozi e laboratori ceramici. Qualche giorno dopo quella visita, il professore d’inglese, in linea con le migliori tradizioni della letteratura di cui era cultore e quasi seguendo le orme degli illustri predecessori del voyage pittoresque, segnava nel suo diario gli appunti della memoria. Accogliendo il suggerimento di una giovane commerciante di ceramica, si inoltrarono per i vicoli di Vietri, sino a giungere alla casa-laboratorio di Carmine Carrera, seduto avanti al suo tornio. Il professore, quindi, annotò: «E’ un uomo dall’aspetto ancora giovanile che porta con grazia gli anni, malgrado i capelli ormai quasi completamente bianchi… Ci accoglie con grande cordialità e calore. I forestieri che mostrano interesse per il suo lavoro sono i benvenuti, ci dice venendoci incontro. Subito dopo, volendoci mostrare la propria abilità… inizia a modellare un pezzo di creta grigia. Il tornio gira veloce, le mani fanno presa sull’argilla che docile cede alla pressione delle dita, in pochi istanti appare la forma, elegantissima, di un’anfora slanciata la cui base quasi non si vede. A questa ne seguono altre due, tre, quattro. Tutte hanno una linea pura, precisa ed inconfondibile».

Terra, acqua, aria… ma quanto divenire! Bocce che si avvitano in spirali infinite, striate, decorate a cerchio, scavate, ansate, biansate, decentrate, antropomorfe, libere nella loro rotondità. Bottiglie affusolate, tirate in arditezze infinite ed eleganze modiglianesche, schiacciate, in torsione verso irraggiungibili desideri. Orci dai piccoli manici, posti per vezzo e non per fruizione, crateri pronti a raccogliere memorie storiche. E ancora, anfore modellate sull’eleganza del cigno, sulla vanità del pavone, sull’equilibrio del fenicottero, sulle stranezze di un incrocio animale esistente soltanto nelle sfide materiche dell’autore. Sottili, inanellati dinamismi di forme che non possono essere raccontati, ma vissuti, perché ogni parola rischierebbe di tradire l’anima che li ha generati.

«Aveva il sogno di creare una scuola di tornio per coloro che desideravano imparare quest’arte antica» ricorda la figlia Teresa, ma come versi di poeta tutto rimase un sogno. Le sue forme sono un grande patrimonio d’arte per la ceramica italiana.

Un suo vaso fu preso a immagine per un manifesto pubblicitario della ceramica di Vietri; sotto vi era scritto: “Ci sono voluti cinque secoli per raggiungere questa perfezione di forma”. Nulla di più vero: a quell’eccezionalità artistica Carrera era giunto scavando nel suo intimo più profondo, nell’anima ceramica dove ha casa l’eredità del vasaio che in ogni tempo e in ogni luogo ha, di volta in volta, trasmesso un codice di perfezione, di esaltazione della forma nel suo servire all’uomo.

“Ninuccio” Carrera era un incantatore di leggerezza ed eleganza delle forme, ma pochi lo hanno capito, così come si confà ai veri artisti. Salvatore Autuori, maestro ceramista vietrese, ricordando, annotava: «Guardavo le tue abili mani che portavano in ascesa quel vaso… manco mi vedevi, non potevi, tu eri li, oltre la cima di quel vaso…».

Era il 27 febbraio del 1994, un giorno freddo, quando la ruota del tornio di Carmine Carrera si fermò per sempre: il vasaio aveva smesso la sua ricerca della forma, l‘eterno divenire del suo essere. Alla mente ritornano le sue parole: «Sono stato povero, però, se non avessi fatto questo lavoro, avrei pagato per poterlo fare».

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