La parrocchia-curata acquistò rilevanza rispetto alla tradizionale frammentazione di congreghe, cappelle, monti di pietà e istituzioni socio-religiose collaterali

Vita religiosa e strutture ecclesiastiche nei primi 50 anni dell’800

I limiti di fondo della diocesi di Capaccio furono acuiti dai gravi episodi di disfunzione amministrativa e di carenza pastorale; situazione che indusse governo napoletano e Santa Sede a riflettere sull'opportunità di smembrarla

Cultura
Cilento martedì 31 marzo 2020
di L.R.
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Basilica paleocristiana © Unico

Il nuovo ruolo sociale della chiesa ebbe grande sviluppo in questi anni. I precedenti contrasti sulla giurisdizione furono accantonati. Stato e chiesa convennero sull'utilità di collaborare per contrastare le forze sovvertitrici dei valori tradizionali e realizzare una restaurazione politico-sociale con la mediazione della religione. A trarre maggiori vantaggi fu lo Stato; infatti, pur cedendo su alcuni punti, si garantì l'incondizionato sostegno della chiesa per conservare lo status quo. Ai vescovi si concesse una certa libertà di azione, condizionata tuttavia dal giuramento di fedeltà al re, uno dei punti forza del governo borbonico per controllare la società religiosa. La chiesa cilentana in tal modo rimarginò alcune vistose ferite del periodo rivoluzionario, ma rimandò ulteriormente la soluzione dei problemi più urgenti: la riforma del clero e una strategia pastorale in grado di cogliere le problematiche culturali e civili dell’emergente società borghese e di un mondo contadino ormai sulle difensive. Gerarchia, apparati curiali e clero durante questo periodo fondarono la loro azione su un’apologetica timorosa di ogni apertura; la tendenza, foriera di gravi dilacerazioni e ritardi, risultò prevalere ben oltre il pontificato di Leone XIII. La catechesi parrocchiale, orientata dalle lettere pastorali dei presuli, richiamava i valori tradizionali e la prassi, condannando ogni tentativo di cambiamento sociale e culturale; mentre l’operato del vescovo continuava ad essere inefficace; isolato non poteva fare affidamento sul clero, diminuito di numero e frustrato nelle ambizioni sociali ed economiche. Il presbiterio diocesano rimase culturalmente impreparato alle nuove esigenze anche per il perpetuarsi delle disfunzioni nei seminari. La parrocchia-curata acquistò rilevanza rispetto alla tradizionale frammentazione di congreghe, cappelle, monti di pietà e istituzioni socio-religiose collaterali, venuti meno per la perdita della base patrimoniale dopo le riforme napoleoniche. Le conseguenze furono gravi perché questi enti sovente erano i soli in grado di penetrare nel tessuto sociale contadino. Così, la parrocchia divenne sempre più luogo di culto, dove non avevano risonanza le esigenze anche materiali della gente; iniziava il progressivo allontanamento delle masse contadine dalla parrocchia, povera e incapace di animare società e cultura. Gli stessi sacerdoti continuarono ad avere una formazione poco idonea alle mutate condizioni, malgrado fosse obbligatorio formarsi in seminario.

La vita di quest’istituto non fu delle più serene: problemi logistici, mancanza di personale, carenza di rendite continuarono a creare preoccupazioni al vescovo. Il presule fu costretto a chiedere aiuto e collaborazione al governo, prodigo di concessioni che condizionarono ulteriormente la sua azione. Nella diocesi, dove la scuola pubblica fu sempre carente, il seminario si trasformò in un’opportunità di studio per i giovani della borghesia; divenne un ginnasio-liceo frequentato più da convittori esterni che da chierici.

La chiesa locale fu sempre più subordinata alle esigenze del potere statale: nelle articolazioni diocesane prevalse un comportamento, che armonizzò le esigenze romane di controllo con quelle borboniche di salvaguardia del potere grazie ad una pratica religiosa rispettosa più delle tradizioni, che delle spinte evolutive presenti nella società. Le pratiche di culto non seppero coinvolgere gli animi; i momenti e le occasioni di fede gioiosa e partecipata rimasero legati alla pratica del pellegrinaggio, ritorno alle suggestioni della religiosità tradizionale vissuta nei santuari.

I limiti di fondo della diocesi di Capaccio furono acuiti dai gravi episodi di disfunzione amministrativa e di carenza pastorale; situazione che indusse governo napoletano e Santa Sede a riflettere sull'opportunità di smembrarla per renderne più facile il governo. La crisi non era congiunturale, bensì strutturale; si trascinava da secoli. Gli effetti delle riforme sfociate nel concordato del 1818 si fecero sentire con molta lentezza, nonostante il drastico ridimensionamento della proprietà ecclesiastica, la laicizzazione di tanti luoghi pii, la riduzione del numero dei preti. Senza ricambio e priva di leve giovanili, mentalità e costumi di un'epoca tramontata non si adeguavano alle nuove esigenze pastorali in una diocesi in cui il clero era ancora condizionato dagli statuti delle 133 ricettizie. Per la ripresa del culto e per la rianimazione della vita religiosa al vescovo non restavano che le missioni, nell'attesa di rimettere in funzione i seminari e provvedere ad un nuovo ordinamento interno delle parrocchie. I problemi dei preti si legavano anche al rapporto col popolo in una società laicizzata, che aveva eliminato secolari privilegi, emarginandoli e costringendoli quasi in sacrestia, dopo la falcidia della rendita con la fondiaria e la diminuzione di canoni e censi; perciò, dopo il 1818, cominciarono a scarseggiare le ordinazioni anche per l'esosa tassa sul patrimonio, fissato col concordato da un minimo di 50 ad un massimo di 80 ducati.

La situazione politica per nulla tranquilla nei paesi della diocesi rendeva sempre delicata l'azione del presule. L'attività cospirativa di sacerdoti in contatto con le sette di altri distretti culminò nella partecipazione ai moti del 1820-1. Gli insorti erano privi di programmi ben definiti; il ceto dirigente, suddiviso in gruppi contrapposti e con aspirazioni contrastanti, contribuì ad aggravare l'instabilità sociale. La borghesia non seppe sostenere con decisione le istanze costituzionali, agevolando la repressione dell'esercito austriaco, come si desume dai velenosi commenti di Speranza nel carteggio privato. Nella diocesi s'assistette alla ripresa delle attività cospirative di carbonari e calderari, sette dalle cangianti sfumature per il prevalere dello spirito municipalistico. La lotta politica degradò in faida nel tentativo di risuscitare lo spirito sanfedista del '99; ma i successi furono minimi, anche se i contadini, disposti al ribellismo per l'aggravata situazione economica, divennero facile preda di agitatori. La curia inviò informazioni su tutti gli individui implicati o sospettati di attività sovversive, specie se accusati di parte­cipare a "segrete associazioni". Col mutare degli indirizzi politi­ci la chiesa riceveva sollecitazioni contraddittorie, che pregiudicava­no ancor più la credibilità della sua azione pastorale. Emblematico l'atteggiamento verso la carboneria, alla quale risulta­vano iscritti molti sacerdoti. Sempre più autonomi rispetto alle direttive curiali, da questi anni e fino al 1860 in ogni moto e associazione segreta furono coinvolti anche chierici, religiosi e preti della diocesi. (cont.)

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