Un’esperienza senza troppi perché
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​VADO IN SEMINARIO

"Così avevano fatto altri figli umili di Piaggine che si erano riscattati dal destino della pastorizia prendendo la scorciatoia dell’abito talare, per accedere alla cultura che libera e rende realizzabile l’impossibile."

Cultura
Cilento giovedì 18 giugno 2020
di Bartolo Scandizzo
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Bartolo Scandizzo oggi © Unico

‘Vado in seminario!’ dissi a mia madre tornando dalla messa domenicale. Don Giuseppe Loffredo mi aveva convinto a lasciare il paese per andare a studiare a Vallo della Lucania. Probabilmente mio padre, che di don Giuseppe era compagno di tressette, aveva chiesto a lui d’inculcarmi l’idea di frequentare la scuola media dai “preti”. Così avevano fatto altri figli umili di Piaggine che si erano riscattati dal destino della pastorizia prendendo la scorciatoia dell’abito talare, vestito a metà, per accedere alla cultura che libera e rende realizzabile l’impossibile. Accettai e vissi un’esperienza di vita senza molti perché. Mi piegai ai riti ed ai ritmi della vita comunitaria con qualche difficoltà. Le superai con l’aiuto dell’istinto che mi ha fatto guardare sempre avanti: quest’è stata la pre-condizione che mi ha fatto esorcizzare i rimorsi. Mi ricordo sempre rivolto dentro di me a fantasticare improbabili ed improvvise emancipazioni dalla condizione di subalternità in cui mi costringeva la pochezza culturale dell’ambiente da cui provenivo e l’oggettiva fanciullezza (ero di un anno più piccolo) che non voleva fare spazio alla giovinezza. Solo nello sport riuscivo ad essere esuberante ma, mingherlino com’ero, fu difficile anche lì primeggiare come sognavo di fare ogni notte quando mi rivoltavo fra le lenzuola e, ad occhi chiusi, impastavo le lacrime ai pensieri… Sognavo anche quando facevo trascorrere il tempo con gli occhi puntati sui testi scolastici, che poco comprendevo, e le mani a ritagliare pezzi di un mondo immaginario che intravedevo nel libro della fantasia. Ero sinceramente raccolto quando traghettavo, con passo lento, i miei pensieri lungo i corridoi adibiti a spazi di preghiera in occasione dei ritiri spirituali. Facevo poca fatica a convincermi che una voce mi parlava e mi chiedeva di essere quello che non potevo diventare, un servo di Dio. Non per mancanza di fede, ma per assoluta ignoranza di causa ed effetto. Era l’unico momento in cui mi lasciavo andare nella scrittura. Traducevo in dialoghi i sussulti dell’anima che mi perseguitavano nei momenti di assordante silenzio impossibili da riempire con il frastuono dei momenti di ricreazione che pure, da soli, mi ritempravano la vita. Avrei ardentemente voluto sapere cantare. Ero invidioso di chi era prescelto per il coro e veniva chiamato per le prove. Soffrivo come non mai in quei momenti che vedevo i miei compagni galoppare verso la cappella dove intonavano odi e canti. Loro in chiesa non s’annoiavano come succedeva a me che soffrivo l’inattività e i riti. Penso di essere stato molte volte ipnotizzato dal movimento dei pollici del vescovo, Don Biagio, che seduto sul trono come un papa, sonnecchiava all’ascolto delle “giaculatorie” dell’Avvento. Nella cappella c’era tempo per divagare, per inquadrare il mondo che c’era dietro ad ognuno di noi. Un nome, un abito, un paese… tutto era nuovo e tutto era immaginato, ingigantito come ogni cosa che non si conosce. Era facile sognarsi nei panni degli altri, di quelli che vestivano bene e vivevano l’esperienza in una corsia preferenziale sulla quale si sorvolava senza rancore perché i semplici sanno essere generosi. In quella cappella, evadevo ogni volta che non riuscivo a reggere la monotonia dello studio obbligato e lo sguardo indagatore del prefetto d’ordine. Tra quegli scanni mi ritrovavo. Ero io, e senza tante finzioni, mi rilassavo con la testa all’insù a contemplare gli affreschi che muovevo con la fantasia come su una scacchiera in una meravigliosa partita della vita. Era il mio cinema e la mia Tv anti litteram. Mi iscrissi anche al corso di pianoforte, costringendo la mia famiglia a versare una piccola quota aggiuntiva alla retta dovuta per l’ospitalità, non trovai mai il passo giusto, né chi mi doveva insegnare riuscì a penetrare il mondo in cui restai attanagliato per molto tempo ancora. Quando ci comunicarono che avremmo frequentato la terza media fuori, presso la scuola statale, mi crollò il mondo addosso, non nel senso peggiorativo del termine, ma perché si dissolse, in quel momento, un mondo costruito intorno ad un’idea di esclusività. Intorno al concetto di isolamento dal mondo era cresciuta la “leggendaria” nomea che chi usciva dal seminario non avrebbe avuto problemi nello studio e avrebbe certamente raggiunto la laurea. E fu così per molti seminaristi che vestirono e svestirono l’abitino nero sotto il quale celarono le loro ambizioni di conquista del mondo. Per me quel fatto segnò lo spartiacque tra un mondo rinchiuso su se stesso e un mondo schiuso all’universo: la scuola statale non si differenziava molto da quella interna! Sia l’una che l’altra non seppero penetrare l’animo di un bambino che voleva volare, ma stramazzava al suolo ogni qualvolta si slanciava nel vuoto dell’ignoranza atavica di un territorio che sentiva occlusa ogni via del pregresso. Nonostante tutto, quel bambino è cresciuto. Con il senno del poi, posso affermare che anche l’inconcludenza della mia esperienza, in un luogo fatto per comprimere invece di liberare, ha trovato modo di riportarmi sui miei passi e farmi apprezzare la genuinità di quella convivenza che mi fece confrontare con l’universo Cilento. Per lungo tempo ho collegato i paesi ai nomi ed ai volti impressi nella mente durante quei tre anni. Con qualcuno ci siamo rivisti, con altri ci siamo persi. Ma nel fondo del cuore, fosse solo per un ritorno alla fanciullezza, rimane un focolaio pronto ad accendersi ogni qualvolta incontro un volto, un paese o passo davanti al palazzone di Vallo della Lucania, che mi accolse e mi licenziò ancora prima che potessimo conoscerci a fondo.

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