Il tormento e l’estasi di un poeta che si addentra ne “l’orribile ventre tricuspide” della Sibilla

BUTHOS ovvero ABISSO

Nel suo camminare tra il tempo e lo spazio Pedicini è rapito dal mito, antico, quello dei padri greci dai quali questa terra felix ha tratto la capacità del Pensiero, la facoltà di guardare oltre il pur lontano, infinito orizzonte

Cultura
Cilento domenica 31 maggio 2020
di Vito Pinto
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Il poeta Gerardo Pedicini © Unico

Era il marzo del 2002 quando tra amici ed estimatori cominciò a circolare “buthos” un volumetto di poche pagine (appena settanta) intrise di una ricerca che il poeta Gerardo Pedicini aveva compiuto, in varie tappe temporali, per la riscoperta di quelle parole poetiche sempre più in via di estinzione tra le ferraglie di neologismi e tecnicismi che si permettono anche di stroncare le parole nella loro completezza.

Ed è un viaggio lungo, che porta il poeta ne “l’orribile ventre tricuspide” della Sibilla, e ancora più lontano, tempo-spazio, verso quelle mura di Elea dentro le quali Parmenide e Zenone coltivarono la sacralità filosofica, cara a Pedicini per la sua nettezza nell’essere o non essere, pensiero e linguaggio. Sente, il poeta che quelle, e altrui voci, sono “vicinamente lontane”, a richiamo di una delle genialità linguistiche che Francesco D’Episcopo a volte, e mai a sproposito, trae dal suo cilindro delle magie letterarie. Così, all’approdo nella classicità, il poeta scopre che “sulla sabbia dorata le parole sono pastelli cromati”, mentre, disperso sulla cima, il Tempio ordina sogni, e il cielo della sera, docile, “cade in pezzi”. Giunge da lontano il grido della civetta, ingannevole all’uomo e religioso inno a Minerva, mentre i bianchi fiori di capperi si schiudono nel tufo giallo, quasi a ricordo di fondamenta sulle quali la Sirena Partenope costruì la sua città.

In questo camminare tra il tempo e lo spazio Pedicini è come rapito dal mito, antico, quello dei padri greci dai quali questa terra felix ha tratto la capacità del Pensiero, la facoltà di guardare oltre il pur lontano, infinito orizzonte. “Incede ora, lui, sulla corda tesa del Tempo / e discute della differenza / tra il Temporale e l’Eterno / livido, invoca ricordi e sfoglia pagine d’acanto”.

E il mito si fa pensiero filosofico, concetto da dire e da tacere, silenziosamente raccolto in quell’abisso – buthos – di classicità sacrale dove sembra albergare un Dio nascosto, dove l’incedere per versi è ordinato come un rito sacrificale: Introibo, o se vogliamo Introito della Messa, al sacrificio; Salterio, recita di salmi biblici, veterotestamentari; Finale, ovvero “ite missa est”. Tre parti di una stessa ricerca, tre periodi di riflessioni, forse di meditazioni, distanti e vicine, atemporali ed attuali, contraddittorie come quei tormenti che il poeta si porta dentro ormai da tempo cercando sensi ad un sogno (“anche i sogni sono frammenti”) che gli sfugge e che caparbiamente insegue, da sempre. “Noi siamo là, nell’ombra, come sospesi nel buio” ad ascoltare o cercare “la parola, un tempo remota” che tiene “te nell’erba e me in quest’arca di pace sotto un’ampia volta di indicibili brividi”.

Ed è l’attesa, “ninfa di buio respiro” forse notturno, silenzioso dove “il Nulla chiama le disperse voci del giorno / e si specchia nel nome che non ha nome”. Ed è “Nessuno” quell’uomo d multiforme ingegno, ansioso, sfuggente, inquieto in un mare di infinita universalità dove le cose e gli uomini non hanno bisogno di essere individuati, perché essere puri.

Cerca il poeta Pedicini nel Mito Mediterraneo, così a noi congeniale ed è il suo insieme di versi, di pensieri taciuti ma scritti, quasi un epicedio della parola poetica che muore per poi rinascere come araba fenice; un movimento di onde marine di quell’antico mare che “Miseno, vide, ed Enea, vide, e la Sibilla, vide accogliere lesta nel seno dell’alloro”, a trionfo di Apollo e Dafne, simbolo eterno di sapienza e gloria.

Con andante moderato, a passi apparentemente scomposti, Pedicini percorre l’immaginifico classico e l’immaginario cittadino, schivando le leggende metropolitane, fermandosi sul fantasioso “Padre della debuttante” a richiamo di Anai, giovane donna (immaginata?) che osa dire “Quando grida la mia voce si ascolta da qui fino in piazza, e sopra i tetti”.

Voci, o meglio, parole scomposte… all’apparenza come inusitate appaiono le indicazioni per lettera delle varie composizioni: è il simbolo della crisi del linguaggio poetico, è sintesi di una non continuità di quella inesistente storia tra un lui ed una lei: è solo un atto dialogante, poetico. Ma allora, alla fine ritrova il poeta le sue parole, il verso giusto per narrare il suo intimo emozionale? Mistero! “Soglia inconoscibile – annota ancora D’Episcopo in postfazione – di fronte alla quale si arresta e sprofonda la nostra vita, ma solo per un attimo, che può diventare eterno”.

Ancora una contrapposizione: attimo ed eternità, nulla di più tormentoso per un poeta che cerca luoghi sicuri dai quali spiccare voli verso il verbo certo dove ogni affermazione è sicura. E ancora una volta scrive Pedicini “questo desiderio che ci chiude ogni orizzonte / è il luogo inaccesso del nostro sentire”.

Ma forse questo è uno dei grandi misteri della vita, della natura dove, a volte, a ricordo di Ugo Marano, è bastante “vivere due secondi, due secondi di eternità”.

Scende la sera, così cara a Pedicini, con le ombre, i silenzi, le quiete della quotidianità. Resta qualche residuo pensiero da portare nel riposo della notte: “quel che noi fummo ora siamo / perché noi senza sorprese siamo / nella nostra dimora”.

Cesellate parole poetiche, dove «si narra – ricorda Aldo Masullo a chiusura di un filosofare poetico in prefazione - come il cammino iniziatico della dolente ragione, avviato dal sibillino incantesimo, abbia il suo punto di arrivo nel disincantato abbandono al “desiderio senza pace”».

Vito Pinto

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