L’episcopato di mons. Maglione si riassume nella continua azione di rivendica di prerogative e diritti

Dall’intransigenza di Siciliani al possibilismo di Maglione

Era comminata la scomunica pontificia ipso facto a chi, appropriatosi o avendo venduto beni del patrimonio parrocchiale, non procedeva alla restituzione.

Cultura
Cilento mercoledì 17 giugno 2020
di L.R.
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Mons.Pietro Maglione © Unico

Il 18 dicembre 1876, fu nominato successore di Siciliani mons. Maglione. Nato ad Eboli il 27 gennaio 1834, era stato nominato vescovo di Cariati il 15 giugno 1874 e fin dall'inizio egli dovette sperimentare cosa significasse avere a che fare con funzionari statali decisamente anti-clericali. Attese due anni l'exquatur perché l'economo generale dei benefici vacanti riteneva la diocesi di regio patronato. La disputa ebbe gravi conseguenze sulla già disastrata diocesi, come dichiarò il guardasigilli nella memoria del 5 luglio 1878, ma il placet fu concesso solo l'8 febbraio 1879.

L’episcopato di mons. Maglione si riassume nella continua azione di rivendica di prerogative e diritti. Impegnato a difendere il patrimonio, egli deve fare i conti con una situazione del clero e delle parrocchie molto problematica. La contestazione all'unità appare riassorbita, ma il sottoprefetto – facendo emergere tutti i pregiudizi antireligiosi - non manca di rilevare che " I preti, qualche monaco, vivono, come si sa, lautamente a spese della classe laboriosa degli ignoranti e de' più miseri cittadini. Mangiano e godono tutti i vantaggi, che porta seco il progresso civile, contro del quale imprecano, mentre poi allontanano da sé i pesi, i fastidi, le cure tutte inerenti alla convivenza sociale." Del resto, -continua il funzionario - "in queste contrade, come per tutto, anche pel culto, non ci è entusiasmo alcuno - i soliti pregiudizi e le solite superstizioni attecchiscono tuttavia nelle masse del popolo minuto, di cui punto si curano le persone di condizione civile - niente più di questo". Egli pensa che il partito clericale risulta "silenzioso e contento di far propaganda delle dottrine cattoliche e non osteggia direttamente il Governo del Re per tema del partito anarchico (…) Egli guarda il Vaticano, ne attende gli oracoli e vi conferma la propria azione. Il clero ed i suoi fautori si astengono dalla reazione, ed appoggiano il Governo per tutto ciò che ha attinenza coll'ordine pubblico e che riguarda la sua conservazione. In politica il suo programma è sinora <non elettori, né eletti>: programma uguale seguì per il passato anche in fatto di pubblica amministrazione, ma ora non più ed entrò in azione colla speranza di diventare arbitro delle medesime". Secondo i dirigenti della sottoprefettura di Vallo "Il partito clericale ha adepti per convinzioni religiose, mal distinte nelle menti inculte di questi popoli dalle convinzioni politiche. La confusione dei due diversi concetti, politico e religioso, fa apparire la esistenza di un partito Clericale politico che in realtà non esiste: dappoiché poche individualità disseminate pel territorio del Circondario, ecclesiastiche più che civili, non costituiscono un partito”. Le attività, che destano preoccupazione nel resto dell'Italia, nella diocesi hanno eco molto sbiadita: "I clericali corrono alle urne per impadronirsi delle Comunali Amministrazioni sotto pretesto che gli interessi cattolici sono minacciati e che lo sono pure quelli della famiglia e della Società, ma la vera mira è di natura politica e perciò vanno combattuti ad oltranza colle armi della legge". La lunga citazione tratta dalla relazione del sottoprefetto consente di cogliere i mutamenti in atto nella diocesi.

Mons. Maglione non si sottrasse a prese di posizioni ufficiali quando ritenne minacciati i diritti della chiesa; perciò, appose la firma alla lettera dei vescovi d'Italia al clero e al popolo del 6 gennaio 1890 per protestare contro la legge sulle opere pie approvata in parlamento. Egli cercò di rivendicare alcuni diritti, che reputava violati per le promesse fatte e mai mantenute dal consiglio comunale di Vallo quando fu costituita la diocesi. Ma principale preoccupazione rimase la vigilanza sul clero, ancora isolato e refrattario ai modelli romani; per questo dava adito a forti preoccupazioni, segnalate sovente anche dalle autorità civili. Ad esempio, grossi problema determinava l'esodo di tanti ecclesiastici nelle Americhe. Il prelato regolò con severità la concessione del permesso della confessione; tuttavia, malgrado preghiere, raccomandazioni e minacce, persistevano le disfunzioni. Il vescovo vietava di vestire alla secolare o di usare anello e distintivi senza privilegi; comminava la sospensione di tre giorni dalla messa a chi giocava a carte nei caffè o in altri luoghi pubblici e per intemperanti e ubriachi salivano ad otto. A chi era accusato di "esercitare la negoziazione, la mercature, ed ogni industria temporale non compatibile con lo Stato Clericale, oltre alle pene previste dal concilio di Trento, il presule ne minacciava altre a suo piacimento. Comminava punizioni a chi celebrava la messa in meno di un quarto d'ora o senza adeguata preparazione e ringraziamento; inoltre, ricordava l'obbligo mensile di partecipare ai casi morali e minacciava otto i giorni di sospensione dalla messa per chi non predicava da tre mesi o non teneva lezioni di catechismo durante le feste. Era comminata la scomunica pontificia ipso facto a chi, appropriatosi o avendo venduto beni del patrimonio parrocchiale, non procedeva alla restituzione.

Assillante problema del presule rimase l'amministrazione della mensa vescovile, che a metà del Settecento era titolare di molti beni, quasi tutti nell'agro di Capaccio, Albanella e Roccadespide per un totale di circa 3.000 tomoli di foreste, 40 di terreni coltivati, 2 molini, fitti di terreni per 294 ducati di rendita. A distanza di un secolo questi appezzamenti risultavano "in parte usurpati, altri finanche interamente occupati da privati", mentre i boschi seriamente devastati. Nel 1850 alla mensa erano state assegnate anche le rendite della badia di Bosco, soppressa con la bolla "ex quo imperscrutabili" e incorporata a Vallo con i paesi di Eremiti, S. Nicola e S. Nazario; tuttavia, proprio la gestione di beni sovente in regioni lontane determinò la progressiva riduzione delle entrate e la crescente percentuale di partite decotte, incrementatesi con l’applicazione della nuova legislazione, che prevedeva il riscatto di terraggi ed altri obblighi contrattuali. Le rendite tendevano a diminuire drasticamente e la disponibilità di edifici si riduceva per l’insistente richiesta d’immobili da adibire ad uffici pubblici. Sfiancato dai continui problemi amministrativi e sfiduciato, mons. Maglione rassegnò le dimissioni da vescovo di Vallo nell'ottobre del 1900, in occasione dell'udienza con Leone XIII. Il 6 dicembre il capitolo cattedrale, avutone notizia, indirizzò una lettera al papa perché non le accettasse; ma egli si ritirò col titolo di arcivescovo di Teodosopoli nel paese di origine, dove morì il 13 aprile 1903.

L.R.

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