Gli operatori sanitari raccontano quei momenti spaventosi, le cure mediche prestate, il sostegno morale fornito e chi moriva senza poter salutare nemmeno i suoi affetti più cari
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Giornata vittime Covid 19, l'ospedale di Polla ricorda i momenti della pandemia e il suo impegno

“Il cuore non smetteva di battere forte e non vedevo l’ora che finisse il mio turno per uscire dal reparto. Ma quando i pazienti cercavano i miei occhi, l’unico contatto con il mondo esterno, capivo che non potevo mollare"

Sanità
Cilento sabato 18 marzo 2023
di Antonella Citro
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Operatori sanitari area Covid © No

“Il cuore non smetteva di battere forte e non vedevo l’ora che finisse il mio turno per uscire dal reparto. Ma poi, quando mi accorgevo che i pazienti cercavano i miei occhi che, in breve, erano diventati l’unico contatto con il mondo esterno, capivo che non potevo mollare”. È il racconto comune a tanti operatori sanitari che, con coraggio e senza lasciarsi sopraffare da un’emozione seppure comprensibile, hanno affrontato i momenti più critici della pandemia causata dal Covid 19 che ha investito il mondo intero e, ha stravolto sconvolgendo la vita del globo terrestre, facendo cambiare persino il modo di esprimersi e rinnovando il vocabolario personale. Parole che vengono pronunciate proprio da chi ha impressa nella memoria quella sfida anche con se stessi e che, oggi, si schernisce perché non vuole essere chiamato eroe di una guerra fredda senza vincitori né vinti, ma semplicemente si difende a testa bassa dicendo di aver fatto il proprio dovere. Un contributo, senza dubbio doveroso, che ha investito le coscienze di chi ogni giorno si trova a gestire l’emergenza. Eppure quella emergenza era diversa, era sconosciuta, era uno tsunami inarrestabile dove il genere umano ha dovuto fare necessariamente i conti con le sue fragilità più intime. Non riuscendo spesso a venirne fuori indenne o senza conseguenze. Paura, corsa contro il tempo, fretta di prestare i soccorsi giusti, dovere di esserci e di rispondere adeguatamente a quell’onda sempre più alta. Oggi ricorre la Giornata in memoria delle vittime di quel virus che ha generato terrore e apprensione per tanto tempo, un timore ancestrale che per tanti versi si è protratto ancora oggi e, che genera ancora più paura, al solo ricordo di quei momenti terribili. Quelle vittime di una malattia che ben presto si è diffusa con una tale forza e prepotenza da restare tutti impreparati, anche i più. Anche l’ospedale di Polla, un piccolo ospedale del Salernitano, un ospedale cosiddetto di frontiera ha gestito quei momenti devastanti e inarrestabili istituendo percorsi di sicurezza, sanificando continuamente i locali dove alloggiavano pazienti risultati da tampone effettuato positivi al Covid, allestendo tende nel piazzale antistante l’ingresso del “Curto” per evitare contatti ravvicinati con l’interno, reclutando personale sanitario che si è trovato ben presto a fronteggiare la fase acuta del paziente, quella più temuta, ha seguito protocolli adottati proprio in quelle ore di crisi mentre le voci tremolanti di ciascuno uscivano da spessori evidenti di tute e doppia mascherina FFP2. Un clima surreale fatto di lamenti per il dolore lancinante, frequenti crisi respiratorie e richieste d’aiuto per mandare via l’“ospite indesiderato”, rumore continuo e costante diffuso dai macchinari che fornivano alti flussi d’ossigeno per i casi più gravi, un clima spettrale che emerge spesso dal racconto di chi è stato in prima linea. Di chi ha infilato doppio paio di guanti in lattice lasciando la solitudine e ansie fuori da quel confine reale e, ha varcato la soglia di quel reparto, imparando a vestirsi e svestirsi di quelle tute bianche ormai entrate nell’immaginario collettivo dove  l’unico tratto che emergeva, era proprio lo sguardo di medici e infermieri che si avvicinavano a quei pazienti che mai nessuno avrebbe voluto vedere. Neanche da lontano. Già, proprio non si possono dimenticare le voci e gli occhi di chi ha somministrato le prime cure seppure quasi sperimentali, di chi ha portato una parola di conforto nella fase più terribile di quella malattia che lasciava inermi, di chi ha visto cambiare rapidamente la condizione clinica di quel degente assistito solo cinque minuti prima e di chi si è buttato a capofitto per dare sostegno senza mostrarsi debole. Quelle vittime del Covid 19 morte sole e, magari sepolte senza aver salutato i loro familiari più cari, adagiate in freddi e sterili sacchi di plastica, ricordando solo il loro nome e dimenticando a volte anche cosa erano state per una vita intera, oggi sono ricordate e vanno ricordate perché l’uomo non dimentichi quanto sia piccolo nei confronti del mondo nel quale è semplicemente un ospite.

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