Emozioni di viaggio a Tortorella

Emozioni di viaggio a Tortorella

LIUCCIO GIUSEPPINO I Viaggi del Poeta
Cilento - mercoledì 11 dicembre 2019
Tortorella
Tortorella © Web

“Nido di pietra alle porte del Parco”. Lo definisce così, con immagine felice ed efficace, Angelo Guzzo nel suo bel libro “Paesi della memoria”. Si tratta di Tortorella, uno dei borghi incantati nell’anfiteatro di colline a terrazza sul mare del Golfo di Policastro. Vanta una storia antica. La sua origine, secondo una diffusa tradizione popolare, risale al 950, quando alcune famiglie di Tortora, un villaggio sul Tirreno in provincia di Cosenza, vi si rifugiarono per scampare alle persecuzioni dei pirati saraceni che dilapidavano le coste con razzie e violenze. Ma probabilmente il toponimo deriva da “tortora”, l’uccello che nidifica sui monti in luoghi appartati e che ancora oggi è possibile vedere roteare nei cieli tersi della contrada. Tortorella, allora, più verosimilmente è il luogo delle tortore a conquista di voli tra le colline. Qualunque sia l’origine del nome, il villaggio ha alle spalle una storia prestigiosa, da un lato, e scandita dalla dominazione dei “signori” venuti da fuori, dall’altro.

Nel 1021 apparteneva al principe di Salerno Guaimario III. Nel 1261 si schierò con Corradino di Svevia contro Carlo D’Angiò. A guerra finita ne pagò le conseguenze e seguì nella sventura il giovane figlio di Manfredi, il giovanetto dal volto gentile e dai capelli d’oro. Il D’Angiò, vincitore, infatti, si vendicò con crudele rappresaglia; ordinò di diroccare le case del borgo, di sradicare i vigneti, di bruciare i raccolti e confiscarne i beni. Fu devastazione senza pietà e senza sconti. E la ricostruzione fu lunga, lenta, difficile. Nel 1272 il feudo fu affidato a Margherita Guarna. Ma neppure allora ci fu pace per Tortorella. Margherita, donna bellissima, di grande sensibilità ed intelligenza, rifiutò le offerte d’amore di Carlo D’Angiò, che, offeso e risentito, punì la bella feudataria, le tolse il feudo e lo concesse, motu proprio, al cavaliere Nasone Gallarato. Era l’usanza dei tempi, quando i capricci di un potente decidevano le sorti di una intera contrada, all’insaputa dei poveri contadini e degli indifesi pastori, che dalla sera alla mattina si trovavano a dover cambiare padrone. Dopo il 1300 fece parte, insieme ai casali di Battaglia, Casaletto Spartano e Vibonati, della Baronia di Lauria, feudo di Almirante Ruggiero, prima, e dei Sanseverino, poi. Sia detto per inciso che qui si respira ancora storia e tradizioni lucane e che i cittadini, oggi come ieri, si sentono più vicini alla Basilicata che alla Campania ”Grande Lucania”, che mira a ricomporre l’unicum della storia, della geopolitica e delle tradizioni lacerate dalle divisioni imposte dall’alto con discutibile organizzazione amministrativa e, comunque, non digerita ed accettata dalle popolazioni interessate. L’antidoto sta, a mio modesto parere, nella creazione di una “Città del Golfo di Policastro”, che accorpi con un progetto unitario di sviluppo paesi della costa e dell’interno e dia speranze ed entusiasmo di futuro ad un vasto territorio che già si sente unito per storia, cultura, tradizioni ed economia. Ne ho parlato di recente con l’amico onorevole Gianni Fortunato che, politico di vivace intelligenza e aperto al futuro, è una sorta di genius loci che si erge a paladino della gente del Golfo, del Basso Cilento, perché trovi un suo ruolo da protagonista nell’ambito della Regione Campania, che fino ad oggi ha fatto di tutto per emarginare un territorio di grande storia, di rara bellezza e di grandi prospettive economiche.

Oggi il borgo, bello e, in buona parte, intatto nella sua struttura urbanistica, affida le speranze del futuro alle risorse dell’ecoturismo, posto come è alle porte del Parco Naturale del Cilento e vallo del Diano. Vi capito in una limpida giornata di metà ottobre con il cielo terso ed il sole che ride sulle case di pietra, su chiese e campanili e sulle campagne,dove una leggera brezza già fa roteare le foglie ramate dell’autunno. Mi colpisce la posizione a strapiombo sul medio corso del Bussento, con la roccia grigia che spicca e domina nel verde della macchia mediterranea, rada. Passeggio a passi lenti per il paese e mi incanto alle tante chiese, ai palazzi gentilizi con i bei portali in pietra viva con tanto di fregi e stemmi che ne raccontano la storia secolare. E’ incredibile come paesi lontani dai circuiti della fruizione turistica e sconosciuti ai più conservino tante belle pagine di storia del nostro Cilento interno! Peccato che gli amministratori, soprattutto quelli dell’interno, non ipotizzino un progetto di valorizzazione delle zone interne per un processo di osmosi e di interscambio con la costa. Eppure, secondo me, è questa la strada di rianimazione economica che trovi nel turismo e nella prismaticità della sua offerta, la chiave del suo sviluppo. Me ne convinco sempre più mentre respiro l’atmosfera di pace e silenzio e, insieme, di calda ospitalità, incrociando i “paesani” cortesi e garbati in un sorriso di saluto. Mi indicano il Palazzo baronale del XVI secolo, massiccio a testimonianza di un passato di potenza. Mi consigliano di visitare i mulini ad acqua nella Valle del Bussento e che trovo imponenti nei ruderi a memoria di gloriose tradizioni agricole e commerciali. C’è aria di profonda religiosità nella contrada che vanta ben tre Santi Patroni: S.Urbabo, S.Vito e S.Felice, le cui feste scandiscono i ritmi di vita e di lavoro del borgo da maggio a ottobre. E a tal proposito un vecchietto simpatico, carico di anni, di esperienza e di saggezza, mi snocciola un vecchio adagio diffuso nella tradizione orale: “Vito pregia. Urbano paga, Felice prega” e che, in un certo senso, mette in risalto le qualità degli abitanti: nobiltà d’animo (pregia), attività commerciali (paga) e i sentimenti religiosi (prega). E’ lo stesso vecchietto a ricordarmi, con un pizzico di orgoglio che il I° agosto si svolge la rinomata fiera di San Basilio, che un tempo durava addirittura 8 giorni. Ecco una bella pagina di storia delle tradizioni cilentane, quella delle fiere, appunto, quando erano un momento di incontro e di socializzazione per la vendita dei prodotti. Altre stagioni quando i mercatini settimanali e i supermercati e gli outlet non avevano alterato i ritmi di vita dei paesi. Me ne torno verso la costa, e nella solitudine della macchina mi si gonfiano dentro le tante emozioni appena provate. E le emozioni, come mi capita spesso, si fanno poesia: Fa onore al nome il borgo sull’abisso/in volo alla conquista del Bussento/che fu fecondo d’acque pei mulini/alla raccolta di grano alla tramoggia:/E fu accorsata un tempo la contrada/a commercio chiassoso nella fiera/ Il Palazzo massiccio de barone/è memoria di regno di “signori”/ a svenare di stenti e di sudori/i contadini poveri e pastori/Qui vennero tremanti dalla costa/fuggiaschi a furia di predoni truci:/e nelle chiese è dolce la preghiera/per i santi, Felice, Urbano e Vito/ a propiziare devota dai patroni/protezione per case e per campagne./ Ride di luce a sole di mattina/nel grigio della pietra Tortorella/a dominio di verde di collina.

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