Si vanti pure e gridi alto di Fedone la magnifica città di Poseidonia il nome!

Si vanti pure e gridi alto di Fedone la magnifica città di Poseidonia il nome!

A Fedone (Poseidonia V sec. a.C.) figlio della città di Poseidonia che dei duecentodiciotto di Giamblico trasse il nome e fu il settimo … il mio saluto!

GAETANO RICCO La Scvola di Atene
Cilento - venerdì 23 febbraio 2024
Tempio di Nettuo a Paestum
Tempio di Nettuo a Paestum © Settimanale Unico

 

EPIGRAFE

Nel novero complessivo dei pitagorici molti, come è ovvio, sono rimasti sconosciuti e anonimi, ma di quelli che si conoscono, i nomi sono i seguenti… di Poseidonia: Atamante, Simo, Prosseno, Cranao, Myes, Fedone.

                                                                          (Giamblico “Vita Pitagorica”)

Ed anche per te, maestro Fedone, figlio della città di Poseidonia che dei duecentodiciotto di Giamblico traesti il nome e fosti di Poseidonia il settimo, canterò il mio canto. E come a colui, che di una erta salita sentendo prossima della fatica la fine, il cuore si slarga e rivolgendo gli occhi all’indietro si premia del cammino trascorso, così io farò e “dimandando” dell'ultimo scalino “fatto vaso” l’amato alloro, solo questo ti chiedo, maestro Fedone, tu che alla poesia dedicasti la tua vita e i tuoi talenti, sii tu, come già di quel grande che i tre regni trascorse, la mia ultima guida. E come già tu quando appressandosi tarda la sera ti accingevi a lasciare la casa delle Muse e versando il coppiere per l’ultima libagione del vino, consegnati della giornata gli ultimi precetti “non danneggiate né di­struggete una pianta coltivata che dia frutti, e nemmeno gli animali che non arrecano danno all’uomo. E inoltre abbiate pensieri benigni e pii per la stirpe degli dèi, dei demoni e degli eroi, nonché per i genitori e i be­nefattori, venite in soccorso della legge e combattete l’illegalità e una volta pronunciate queste parole” facevi ritorno a casa, e ricco e appagato dei doveri di un giorno pieno, felice ti  apparecchiavi al meritato riposo, fa sì che giunto anch’io alla fine del mio cammino, fatto ricco del giuramento onorato, possa del meritato riposo godere e “utinam” alla tua Scuola di Poseidoniaed a te, maestro, consegnare “un cantico che forse non morrà”. Era il terzo anno della LXXXII Olimpiade ed il nuovo tempio, ancora oggi di Nettuno nominato ma a te, luminoso Apollo, dedicato, era stato da poco ultimato e con il mese di Ecatombeone che, con la sua afosa pompa lunghi giorni assolati, stava per entrare in città, si preparava la tua Scuola e la tua casa delle Muse, chè prossima, come aveva un dì comandato il primo Maestro, del solstizio si avvicinava la festa e non poteva il vostro Dio, con i suoi potenti raggi radiosi mancare. E tu, maestro, che, dei sette eri il poeta ed  in quell’anno il più anziano competeva l’ufficio, prima che prima che ogni festa cominciasse o ogni sacrificio bruciasse, di scrivere di ringraziamento il nuovo canto.“Beato colui che è amato dalle Muse: dalla sua bocca esce un canto dolcissimo” cantava l’antico poeta che “l’acque perigliose del padre Oceano” trascorse con le venture del suo “innominato” eroe, e beato te, maestro Fedone, che pieno dell’alto  ufficio ti allontanasti ed in silenzio, varcando di quella Casa la soglia, solitario ti avviasti verso il muro del “temenos” che ad oriente chiudeva il tempio ed invocando il tuo dio così, facendo sul vello di cera trascorre lo stilo appuntito, principiasti cantare “e comincio a cantare di te, o figlio di Zeus e di Leto, che signore e padrone della cetra tutta con i tuoi cantori e i tuoi citaredi allieti la terra.  Salve, o potente Apollo, tu che con il tuo canto sollevi e dai malanni guarisci ogni uomo, vieni, sorgi ancora una volta benigno e con il tuo raggio dorato illumina il nostro cammino e donaci per i tuoi  divini vaticini la sapienza e porta ai nostri giorni armonia e misura e sia il tuo mantello dorato nostro riparo nelle avversità e tu, grande e potente Apollo, figlio della beata Leto dai bei capelli, arciere glorioso dall’arco invitto rimani con noi e noi, non un solo giorno, facile agli inni, terremo la cetra sonante in silenzio. E se mille e mille sono i tuoi canti, con gioia noi di te canteremo un nuovo canto e con la potenza della tua concava cetra che colpita dall’argenteo plettro in tutte le arti si versa solenne con il suono incantevole manda a noi di nettare ed ambrosia cosparsi i tuoi doni e siano le Muse tutti giorni le nostre compagne, perché tu sei Apollo, il figlio di Zeus, e nessun altro con te potrà gareggiare chè della bellezza tu sei il primo. Volgi dunque il tuo sguardo immortale su di noi e veglia …  salute a te, figlio di Zeus e di Leto e io canterò te, e anche un’altra canzone”. Era un canto nuovo, alto di ringraziamento e di lode che veniva di lontano da quel tuo previssuto onirico, da quella fonte di “Mnemosine”, che come già il Maestro, con argomenti inoppugnabili mostrava, di essere stato prima Euforbo e poi morto Euforbo, Ermotimo, Pirro ed infine Pitagora, così anche tu, maestro Fedone, una volta eri stato dell’antica epica greca prima un cantore. Trefisto di Sparta, l’aedo, fu il tuo nome e più volte cantando le gesta di coloro che Ilio incendiarono, fosti alla corte di colui cui la coppa “Io (sono) la coppa di Nestore, facile a bersi chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona” della nostra verde Pithecussa diede il nome. E poi morto Trefisto rinacque la tua anima come Polistarco che giunto nella fioritura della sua vita morì combattendo nella piana di Maratona contro i Persiani e fosti dei mille che la polis di Platea impegnò il più coraggioso. Ed ancora, nel secondo anno della LXXIII Olimpiade, fiorenti i traffici nella “odorosa” città di Poseidonia, reincarnandosi per la terza volta, nella casa di Euristone il ceramista, tu rinascesti come Fedone. Tu, maestro, che cantando già da fanciullo alla sua città “o nobile Poseidonia che al dio del mare consegnasti il tuo timone e di tutte le città della Lucania fosti il vanto, non smetterò di cantare il mio canto ma girando per le città affollate degli uomini porterò in ogni contrada la tua fama e la tua bellezza ed essi mi crederanno perché è la pura verità” crescendo ti facesti pitagorico alla Scuola della sua città e tra i sette di Giamblico, della poesia fosti il vanto più grande. E tanti, quando preparandosi i riti per le feste propriziatorie del dio che proteggeva la città o per la bella stagione che apriva le porte della città consegnando  le navi ben guarnite al mare, furono i tuoi versi tutti nel teatro declamati ed agli dei ed agli eroi votati e nessuno mancava chè la città con il vostro governo e con le vostre leggi cresceva  tanto che non mancò più volte la tua patria di cingerti d’alloro con la sua corona le tempia e nell’agorà con una stele di segnare il tuo nome, ma fra tutti, che la tua madrepatria generò, eroi particolarmente di quello, che di Tessaglia venne, amasti di narrare le “gesta che attraverso le bocche del Ponto e le rupi Cianee, eseguendo i comandi di Pelia, guidarono al vello d’oro, la solida nave”. E se oggi, come già quello dei tuoi sei fratelli, nelle nebbie del tempo si son perduti i vostri nomi e solo rimane il ricordo di quella prima tua anima che trasmigrando in Apollonio prima e rinascendo poi in Flacco si perfezionava per altri nomi cantando il tuo vanto, pure, mi piace con te, maestro, di tornare a bere a quella fonte che “scorre dal lago di Mnemosyne” e dalla quale “poi che avrai bevuto procederai sulla la sacra via su cui anche gli altri iniziati e posseduti da Bacco procedono gloriosi” perché memoria rimanga perenne di te e di quel primo tuo talento poetico che tanto lustro alla tua città apportò. E come già di quel divin Pittore che le Stanze del Vaticano affrescò, nella sua “Scuola di Atene”, che io, in una copia non “achiropita” ma da mano di mio fratello dipinta, con il mio volto violai, alle spalle di Colui che per  primo alla tua Scuola dettò le leggi dipinse Anassimandro o forse Aristosseno o ancora Empedocle, così io farò e piagato sulle ginocchia anch’io mi metterò, maestro Fedone, alle tue spalle e in silenzio, apparecchiandomi a tramandare quello che, come Crono i suoi figli, tu componesti e che la caligine  rabbiosa del tempo inghiottì, ascolterò. Era del tuo ”incipit” il suono dolce e soave che della tua perduta opera, ben due volte rinata, anticipandone la trama, così cantava “come Argo costruì la sua nave, con il consiglio di Atena cantano i poeti di un tempo: io voglio invece qui dire la stirpe degli eroi ed il nome , e i lunghi viaggi per mare e tutte quante le imprese che essi compirono nel loro errare. E siano le Muse ministre del canto” e che aprendosi poi alla narrazione di quella gloriosa avventura che vide l’eroe di Iolco, a bordo della nave Argo, con i suoi cinquanta compagni, salpare dalla Grecia alla volta della misteriosa Colchide per riconquistare e riportare in Grecia il vello d'oro. E che giunto, nelle sue mille peregrinazione, poi alla foce del verde Silaro, volle con un tempio, alla sua dea dedicato e di cui ancora oggi solenni e maestose, nel museo della tua antica città, se ne ammirano le metope, segnare il suo cammino ed anche il tuo, maestro Fedone, chè non passò molto tempo ed a cinquanta stadi più a meridione dal quel tempio e da quel “muro”, come ebbe a scrivere qualche secolo dopo ancora un altro viaggiatore, ne nacque potente e bellissima la tua città e forse del mio paese la sua prima leggendaria fondazione. E se di quel tuo canto, maestro, io osai e forse qualcuno più ardito dirà abusai, fu perché sempre il tuo primo Maestro facendo l’anima trasmigrare “quanto alla cura degli uomini egli molto opportunamente cominciava da quel principio che chi si accinge ad apprendere il vero in ogni campo deve preventivamente conoscere. A quanti si intrattenevano con lui, egli richiamava alla mente, nel modo più com­prensibile e chiaro, la vita che la loro anima aveva vissu­to precedentemente, prima di essere legata al corpo” ed io così ho fatto, ed obbediente al Suo comando, sono andato alla ricerca di quella prima antica radice eroica della tua città che non poteva non “tangere” la tua anima poetica. E se poi dopo di te, maestro, cantarono la tua città e furono tanti i poeti che la lodarono per la bellezza dei suoi templi e per il profumo delle sue rose che emanava dalla sue colline ben coltivate, non è mistero, ma è la tua anima, maestro Fedone, che viva morendo, come la Fenice, rinasce e ancora oggi viva, in un piccolo paese, che la tradizione vuole dalla distruzione della tua città nato, continua a cantare ed in silenzio a coltivare quel lauro che, pur soffocato dai “rovi” che il mio tempo troppo “liquido” alimenta, tu, maestro Fedone, tanto tempo fa piantasti e che io, con questa tua “Epistola” ho provato a raccogliere e tramandare. “Salirò e per te, maestro, con Armonia farò danzare le Cariti ricciute e le Ore piene di allegria e tu sarai immortale”. E se acuta preme l’ora tarda e trascorsa è già della notte la seconda “vigilia” ed io sono stanco, pure urge, lettore, che alto del maestro alla sua poesia si conformi il mio congedo ed il mio saluto e non sono le mie ali atte così in lato a volare chè rovinosamente potrebbero cadere, allora come già feci tante volte ancora farò e chiamando in soccorso i miei “maggiori” volentieri mi voto e tornando a quel grande che con Cleobulo, in un saggio, in Italia portò Platone, accetto tutto e, per te, lettore, cui sempre guardai per colmare quel vuoto che il tempo scavò e per far, almeno nei nomi dei sette che il novero di Giamblico tramandò, della antica “Scuola Pitagorica di Poseidonia” risorgere la fama, copio e nella certezza che tutte le capirai, lettore, del mio cammino le ragioni, ti saluto e mi congedo “Ho tentato di supplire a questo vóto con alcune mie “Epistole”, che “considero come due braccia, che un dozzinale artefice moderno voglia rimettere ad una bella statua antica. Solo ti prego, o lettore, se mai talune cose, che leggerai nel testo, ti sembreranno strane e lontane dalla comune opinione, a non volerle tosto condannare, ma a sospendere il giudizio tuo e ad valutare  … e se poi “non abbia scritto di talune cose e perché abbia scritto di talune altre, perché non sia stato più lungo, perché non sia stato più breve, non saprei dirtelo. Gli antichi parlavano e scrivevano in modo diverso dal nostro. Erano lunghi parlando, perché dicevano tutto ciò che era necessario a dirsi; erano brevi scrivendo, perché non scrivevano nulla di più di quello che era necessario a scriversi… Montaigne dicea “io sono annoiato di tutti gli scrittori de' miei giorni. Se uno di essi ha visitati i luoghi santi e vuol narrarti ciò che ha veduto, ti fa un trattato di geografia; se un altro ha scoperta la virtù particolare dell'acqua di una sua fontana, ti parla di tutti i fondi, di tutti i laghi, di tutti i fiumi e di tutti i mari della terra. Io ti prego, amico, a voler giudicare di un autore da ciò che ha detto, e non da ciò che dovea o poteva dire… ed io ho voluto trascrivertelo intero, o lettore, onde tu sappia che, se mai non avessi da opporre a questo libro altro di quello che gli ha opposto l'amico, potrai ben dispensartene, perché né tu avresti nulla di nuovo da dirmi, né io avrei nulla di nuovo da risponderti. Sta sano.

Questo, maestro, il mio epigramma per te: E se Pindaro con Corinna fu secondo, io rispondo: chè tu, Fedone, mancasti nell’agone.

Questo, maestro, nel dicembre molesto, l’amore che non ho chiesto… il fiore che ti porto!

Chiusa nelle prime ore antimeridiane del giorno di sabato 23 dicembre dell’anno 2023 

 

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