Ci sono mattine, nelle aree interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, in cui la luce accarezza i tetti dei borghi come se tutto fosse immutato.
Ma chi abita questi luoghi sa che non è così: il silenzio non è più semplice quiete, è un vuoto che parla.
È un silenzio che racconta partenze, attese, case chiuse e strade attraversate più spesso dalle valigie che dai sogni.
L’emigrazione giovanile non è un’onda improvvisa, ma un lento sgretolamento che sottrae energia, futuro e identità.
I giovani non se ne vanno perché non amano la loro terra.
Se ne vanno perché non trovano appigli solidi, percorsi credibili e prospettive reali.
Cercano amministrazioni capaci di decidere, infrastrutture moderne, tempi certi e opportunità vere.
E invece trovano ostacoli, attese infinite e contraddizioni che sembrano non finire mai.
Per troppo tempo, nelle aree interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, si è parlato più di quanto si sia costruito.
Strade annunciate come priorità e poi abbandonate, progetti culturali nati con entusiasmo e spenti per mancanza di gestione e investimenti che hanno generato pochissimi posti di lavoro duraturo.
La ferita più profonda è nella fiducia tradita, nel divario crescente tra ciò che si promette e ciò che si realizza.
A rendere tutto più difficile si aggiunge una fitta trama di ostacoli amministrativi e politici: burocrazie lente, competenze che si sovrappongono, responsabilità che evaporano tra un ufficio e l’altro e decisioni che cambiano di tavolo in tavolo.
E poi c’è ciò che non dovrebbe mai accadere: paesi che ancora oggi non dispongono di un PUC (Piano Urbanistico Comunale).
Comunità sospese in un vuoto urbanistico che impedisce qualsiasi forma di sviluppo e scoraggia chi vorrebbe investire o innovare.
Accanto a queste criticità strutturali si è radicata una deriva simbolica che racconta meglio di qualsiasi report il rapporto distorto con il progresso: l’inaugurazione dell’ordinaria amministrazione viene celebrata come un evento straordinario.
Il rifacimento di un marciapiede diventa un “risultato storico” e la riapertura di una strada un “cambiamento epocale”.
È l’arte del fingere miglioramenti, la trasformazione del minimo indispensabile in conquista.
Ma quando si festeggia la normalità, si smette di pretendere il necessario.
E i giovani lo vedono, lo capiscono e si allontanano sempre di più.
Lo sviluppo, da anni, viene raccontato più che costruito.
Piani nati per gestire risorse, non per generare futuro.
Documenti tecnici che non hanno mai prodotto lavoro.
Iniziative episodiche che durano il tempo di un finanziamento.
Strategie che si spengono con il cambio di amministrazione.
Un piano che non crea occupazione è un ornamento.
Un investimento che non lascia tracce è spreco.
Un progetto senza manutenzione è teatro, non sviluppo.
Le aree interne non possono più permettersi piani di facciata.
Hanno bisogno di continuità, visione e capacità di guardare oltre i confini della legislatura.
Lo sviluppo autentico non è una corsa a ostacoli tra un bando e l’altro.
È un percorso che richiede costanza, manutenzione, monitoraggio e capacità di correggere la rotta.
Significa guardare ai prossimi trent’anni, non ai prossimi sei mesi.
Vuol dire creare strategie resistenti ai cambi di amministrazione, definire obiettivi misurabili, costruire infrastrutture progettate per durare e investire in percorsi formativi utili per le professioni del futuro.
In molte regioni europee questa continuità è normale.
Qui deve diventarlo.
Un territorio può promuovere solo ciò che costruisce davvero.
Non può raccontare ciò che non ha.
Un marketing territoriale credibile si fonda su servizi funzionanti, infrastrutture solide, opportunità concrete, progetti realizzati e mantenuti.
Solo così la narrazione può diventare attrazione e la bellezza dei luoghi trasformarsi in economia.
Chi governa queste terre non può più contemplare la fuga dei giovani come un fenomeno inevitabile.
Deve scegliere: essere parte della soluzione o continuare a essere parte del problema.
La credibilità istituzionale nasce dalla capacità di premiare il merito, sostenere chi innova, evitare sprechi, garantire trasparenza e dare risposte in tempi certi.
Ed è proprio qui che si gioca la battaglia principale: combattere la fuga dei giovani deve diventare il cuore di ogni politica e di ogni investimento nelle aree interne.
Non esiste strategia credibile se al centro non c’è l’occupazione, se non si premiano le competenze, il talento e la capacità di creare valore.
Un territorio che non investe sui giovani è un territorio che rinuncia alla sua stessa sopravvivenza.
Le comunità rinascono quando i giovani diventano partner, protagonisti e alleati.
Non spettatori.
Nelle aree interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, il tempo pesa più della distanza.
Ogni minuto perso per raggiungere un servizio essenziale allontana un’opportunità.
Senza collegamenti efficaci, senza una mobilità moderna, senza connessioni digitali affidabili, senza una viabilità che accompagni la futura stazione AV, nessun territorio può competere.
Ogni ritardo infrastrutturale è un giovane in meno.
I giovani non cercano assistenza, cercano dignità.
Vogliono la possibilità di trasformare idee in realtà e di costruire il proprio futuro senza dover migrare per forza.
Hanno bisogno di luoghi che favoriscano la creatività, che permettano di innovare, sbagliare e ricominciare.
Cercano spazi dove far nascere start-up culturali e tecnologiche, percorsi formativi legati alle professioni reali, scuole e università che dialogano davvero tra loro e con il territorio.
Aspirano a un’agricoltura intelligente, a una green economy solida e a un turismo esperienziale attivo dodici mesi all’anno.
E pretendono servizi rapidi, semplici e trasparenti, perché il tempo della loro vita non può essere consumato dalla burocrazia.
Un territorio non trattiene con le parole, ma con le opportunità.
Non conquista con la nostalgia, ma con il lavoro.
Non cresce con il ricordo, ma con il futuro che sa costruire.
Le aree interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni possiedono una bellezza rara e una storia millenaria.
Ma la bellezza, se resta immobile, diventa solo cornice; e la storia, se non viene trasformata in progetto, diventa un museo.
La trasformazione è possibile, ma richiede coraggio, continuità e una visione che superi i piccoli calcoli della politica quotidiana.
Richiede la capacità di immaginare ciò che ancora non c’è e di avviare davvero il percorso per costruirlo.
Il futuro di queste terre dipende dalle scelte, non dal destino.
È il momento di dire basta alle celebrazioni del minimo indispensabile, ai piani senza struttura e agli investimenti privi di visione.
Serve una rivoluzione amministrativa, culturale e produttiva che rimetta al centro lavoro, merito e giovani.
Quando le aree interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni sapranno offrire occupazione stabile, infrastrutture credibili, servizi efficienti e un ecosistema produttivo che valorizza il talento, allora questi luoghi non saranno più segnati dalle partenze.
Saranno segnati dai ritorni.
Saranno terre dove il silenzio non annuncia assenze, ma una rinascita finalmente concreta.



