La montagna e le aree interne possono creare lavoro.
Non per concessione, non per emergenza, non per nostalgia, ma per scelta consapevole.
Chi vive questi territori lo sa.
Qui nulla nasce per caso.
Ogni campo coltivato, ogni olivo potato, ogni prodotto trasformato è il risultato di tempo, fatica, conoscenza e pazienza.
Eppure troppo spesso tutto questo resta invisibile, come se non riuscisse a superare i confini del luogo in cui nasce.
Il problema non è la mancanza di qualità.
Basta entrare in un frantoio, camminare tra i filari e parlare con chi produce per capire quanta cura esista davvero.
Il problema è che per anni si è creduto che produrre bene fosse sufficiente.
Che la qualità, da sola, sapesse parlare.
Non è così.
Un prodotto che non viene venduto nel modo giusto non racconta il luogo da cui nasce.
Non parla delle colline, dei pendii, della luce, del vento e delle mani che lavorano.
Diventa anonimo, intercambiabile e silenzioso.
E quando un prodotto smette di raccontare il proprio territorio, perde valore.
Non perché non sia buono, ma perché non viene riconosciuto per ciò che è davvero.
Il mercato non premia solo la qualità tecnica.
Premia l’identità.
Premia ciò che riesce a farsi comprendere, ricordare e desiderare.
Un olio eccellente che non racconta il luogo da cui nasce non difende il suo prezzo.
Resta costretto a competere con prodotti qualsiasi, schiacciato verso il basso.
Così la montagna scompare, pur essendo presente in ogni goccia.
Raccontare il luogo non è poesia.
È economia.
È strategia.
Significa rendere visibile il paesaggio dentro il prodotto.
Far capire perché nasce lì e non altrove.
Far sentire che dietro a quel prodotto c’è una comunità, un equilibrio e un modo di vivere.
Quando questo racconto manca, il lavoro resta invisibile e il valore non torna indietro al territorio.
È qui che la montagna, le colline e le aree interne possono davvero creare lavoro.
Non solo producendo, ma organizzando.
Costruendo filiere complete, dove accanto a chi coltiva e trasforma esistono competenze capaci di leggere i mercati, costruire marchi, posizionare i prodotti, difendere il prezzo.
Vendere bene non è un dettaglio.
È il punto in cui la qualità diventa reddito, in cui il lavoro diventa sostenibile e in cui i giovani possono restare.
Non è sufficiente produrre un olio eccellente se poi non esistono competenze e imprese in grado di portarlo sui mercati giusti e di farlo riconoscere ai prezzi più alti che merita.
La qualità che resta chiusa nel territorio non crea lavoro.
Resta un fatto tecnico, spesso eroico, ma economicamente fragile.
Senza capacità di vendita, anche il prodotto migliore diventa vulnerabile.
Per questo è indispensabile investire nella creazione di figure professionali che sappiano vendere nel modo corretto.
Vendere non significa collocare un prodotto qualsiasi.
Significa posizionarlo, raccontarlo e difenderne il valore.
Significa dialogare con buyer qualificati, ristorazione di qualità, negozi specializzati e piattaforme selettive.
Significa conoscere i mercati quanto si conosce la terra.
Senza queste competenze, si produce bene e si vende male.
Questo investimento non è secondario.
È decisivo.
Ogni professionista capace di vendere bene genera valore lungo tutta la filiera.
Aumenta il reddito dei produttori.
Rende sostenibili le imprese.
Crea lavoro qualificato.
Trasforma la qualità in futuro.
Qui entrano in gioco le cooperative e le associazioni di categoria che lavorano davvero per il territorio.
Non strutture formali o puramente burocratiche, ma organizzazioni vive, operative e radicate.
Realtà che accompagnano quotidianamente le imprese, che formano continuamente i lavoratori sulle nuove tecnologie agricole, sulla tracciabilità, sul digitale, sull’e-commerce e sui nuovi modelli di commercializzazione.
Senza questo livello intermedio, tra chi produce e chi compra, i territori restano soli davanti a mercati complessi.
Le cooperative permettono di condividere competenze, ridurre il rischio e costruire marchi territoriali veri.
Rendono possibile ciò che il singolo produttore non può sostenere da solo.
In questo spazio possono trovare lavoro stabile anche i giovani laureati che sono partiti per studiare con l’idea di tornare.
Economisti, agronomi, esperti di marketing e comunicatori.
Persone che conoscono i luoghi e i mercati e che possono diventare il ponte tra territorio e mondo.
Dentro questa visione rientra anche una scelta chiara e non più rinviabile.
Basta con le sagre senza prodotto.
Una sagra senza una produzione reale alle spalle non è promozione. È rumore.
Consuma risorse, crea illusioni, ma non costruisce economia.
La festa ha senso solo se celebra un lavoro che esiste tutto l’anno, non se lo sostituisce per un weekend.
Le aree interne creano lavoro quando passano dall’evento al prodotto, dalla rappresentazione al mercato e dall’orgoglio locale alla capacità di stare nel mondo.
Quando i prodotti tornano a raccontare i luoghi da cui nascono, il valore viene riconosciuto, il prezzo diventa giusto e il lavoro torna dignitoso.
La montagna e le aree interne torneranno a creare lavoro quando smetteranno di nascondere la propria qualità e inizieranno a raccontarla, organizzarla e venderla al mondo nel modo migliore, trasformando i luoghi in valore, il lavoro in dignità e il restare in una scelta di futuro.



