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    Percorso:Home»Il cammino del parco»  Vietri sul mare, terra di miti e artigiani
    Il cammino del parco

      Vietri sul mare, terra di miti e artigiani

    Di Vito Pinto9 Febbraio 20258 Min Lettura23 VisiteNessun commento
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    Non sono pochi gli innamorati che, appartatisi lungo quel tratto di spiaggia a ridosso della Torre Crestarella, riescono ad ascoltare uno strano fruscìo, fatto di bisbigli, risa, mormorii, sospiri e fremiti, provenienti da quel mare di Vietri.

    Quel sommesso sospirare è ancora il fremito d’amore de “I Due Fratelli”, travolti dal tempestoso mare per salvare una splendida fanciulla. Ma Nettuno pensò a premiare il loro gesto d’amore ponendo due imponenti scogli, posti al centro di un ampio golfo racchiuso tra il sogno di Palinuro e il canto delle Sirene.

    La mitologia ci racconta di Giasone dei suoi argonauti alla ricerca del vello d’oro. La forza del dio Eolo li sbalzò su questi lidi e Giasone, attratto dalla bellezza del sito, vi eresse un tempio dedicato ad Era Argiva e intorno edificò Marcina.

    Ma sarà stata certamente la posizione raccolta e difendibile, nonché la presenza copiosa di acque a convincere i Tirreni a gettare le ancore in questo seno e a porre fine al loro peregrinare. E fu Marcina, lì dove ora è Marina, città ricca, potente, fiorente di commerci, occupata dai sanniti, abitata dai greci, lucani e romani.

    La sua floridezza si sviluppò per molti secoli essendo il naturale sbocco a mare dell’ampia Valle Metelliana e ancor più della florida Nuceria Alfaterna.

    La decadenza di Marcina iniziò nel V secolo d.C., ad opera delle invasioni barbariche di Genserico. Fu proprio per difendersi da queste orde che gli abitanti trovarono sicuro rifugio sulle colline circostanti e nell’entroterra.

    Come per il mito di Giasone, anche la storia di Vietri ci rimanda ad un Jannace de Orso che costruì in un suo podere il «locum Beteri» una chiesa dedicata a Santa Maria e San Giovanni Battista. Intorno a questa chiesa posta nel punto più alto, sorse il borgo che nei secoli si sviluppò per addizioni concentriche.

    Vietri appare subito dopo il verde metelliano, con il bianco delle case, il cotto dei tetti e la cupola maiolicata della chiesa di S. Giovanni Battista. Da sempre questo borgo è pronto a raccontare di sirene, naviganti e artigiani intenti a modellare una civiltà fatta di argilla. Ha scritto Ugo Marano che «i ceramisti di Vietri hanno cominciato a plasmare terrecotte per pavimentare la terra, hanno plasmato ambrogette per dare dignità celeste alle cupole delle chiese, plasmato piatti e bicchieri per imbandire le nostre tavole a festa».

    Nel suo voyage del 1829, Gautier d’Arc scriveva: «Tutto è poesia in queste ridenti contrade: mentre attraverso le onde tinte dell’azzurro del cielo d’Italia la nostra barca scivola con la rapidità di una rondine cullandosi col suo movimento ondeggiante, su un ritmo cadenzato che si accorda con le oscillazioni della barca: la barcarola lenta e lamentosa dei nostri rematori va a perdersi risonando nelle rocce del promontorio e fa ritornare gli echi».

    E sono gli echi della natura, a monte del mare, su quei sentieri «tra i boschi, su rocce scabrose e strapiombi» nelle montagne a ovest di Vietri, camminando dalla Marina verso Dronea ricordati dal nobile inglese Henry Swinburne.

    Vietri sul Mare è stata apprezzata per la sua “aria pura”. Niccola Maria Salerno, patrizio salernitano, principe di Lucignano, oratore esperto e raffinato, ricorda nelle sue Novelle che alcuni giovani, giunti a Salerno per la rinomata Fiera cittadina, per sfuggire «l’aere non sano, anzi di mortifere infermità cagione» della città, trascorrono la notte nella locanda di Elena Di Cesare a Vietri. E dopo aver visitato la Fiera quei giovani decidono di trasferirsi in una villa di Vietri, ospiti di Donna Lucrezia de Luna d’Aragona per trascorrere «in piacevolezze un utile periodo di riposo e di svago».

    Dieci giorni dura l’avventura durante la quale i giovani e le damigelle raccontano una storia ciascuna. Le “piacevolezze” di quella giovane brigata furono senza dubbio favorite dall’ambiente e da un paesaggio che «si inserisce con naturalezza nel più bel tratto di costa e scenario di pietra calcarea che abbia tuttora visto senza eccezione» come ebbe a raccontare nel 1841 John Ruskin.

    «Bella» definisce Vietri Cosima Wagner allorquando giunge con il marito Richard da Ravello per prendere il treno per Napoli, mentre Johan Seune definisce il percorso fra Cava e Vietri «uno dei più bei tragitti, forse in tutta Italia».

    Non sono poche le vedute d’Italia incise nel 1700 da Philippe Hackert, ma quelle dedicate a Vietri sono state definite da Dieter Richter «tra le più belle realizzate».

    Di fronte alla visione della chiesa di San Giovanni Battista, alta sui rossi coppi dei tetti, allo scenario dei merletti della Costiera Amalfitana, all’azzurro del mare che lambiva la fine sabbia ove Hans Christian Andersen assisté ad una rissa tra due squadre di marinai, J.H. Bartles scrisse nel 1787 di essersi trovato di fronte a «una delle più meravigliose vedute della mia vita».

    Al di là degli scenari a Vietri è ancora spontaneo poter meditare in un momento di silenzio: si scopre allora che la storia, i suoi segni, le leggende, i miti popolano ancora la fantasia del viaggio. E si riprende il cammino con piede lieve, su per antichi sentieri a ritrovare gli ultimi viaggiatori, Peter Willburger e Franz Brugman, o gli eredi di quei vasai e decoratori che in cinque secoli hanno tracciato il segno di una solarità ceramica con il cobalto del mare, il manganese della terra, il cromo del sole, il bianco delle fonti, il verde dei monti. Fermandosi in una bottega ci si accorge che il viaggio raccoglie immagini di un cammino a ritroso nella storia dell’uomo, sino alla Genesi: «…e preso un pugno di terra, lo impastò con l’acqua e sulla forma fece scendere il suo soffio di vita».

    In queste botteghe artigiane il gesto è dosato dalle mani, il tempo è misurato dall’andare della grande ruota del tornio a modellare l’argilla, la vita è lo scivolare del pennello sul bianco Vietri a disegnare mille fantasie colorate di iride. «I popoli parlavano del lavoro del torniante come del più bello e difficile fra quelli artigianali» scriveva Irene Kowaliska. Poi aggiungeva: «sulla costa delle sirene di Odisseo ho trovato la mia bottega».

    E ai vasai di Vietri Emilio Cecchi dedicò uno splendido articolo divenuto un classico della letteratura ceramica.

    La ceramica, intorno agli anni venti, diventa motivo di richiamo per quegli artisti stranieri della Mitteleuropa che qui giungevano spinti dal desiderio di un novello Italienische Reise. Giungono per primi Gunther Stuedemann e Richard Dölker, mentre il giovanissimo Giovanni Carrano traccia i suoi sogni ceramici su fogli quadrettati d’un quaderno. Intorno al genio di Dölker si coagula una piccola colonia di stranieri: Irene Kowaliska, Margareth Tewalt Hannash, Marianne Amos e giunge anche il ricco commerciante di Amburgo Max Melamerson che riuscì a ridare una dimensione estera alla ceramica vietrese.

    Intanto nelle botteghe lavorano Guido Gambone, Salvatore, Vincenzo e Giosuè Procida, i fratelli Solimene con il padre Francesco (Ciccio), Matteo Rispoli e, alla fine degli anni ’40, Andrea D’Arienzo con Gambone dà vita alla splendida avventura della “Faenzerella”.

    Ma nelle botteghe di Vietri la vita non si è mai fermata, le mani hanno continuato a plasmare, modellare, smaltare, decorare, cuocere, accarezzare proprio come in quel disegno graffiato sul nero che Amerigo tot incise su una parete della faenzera di don Raffaele Pinto.

    La presenza lungo gli anni del dopoguerra di Max Bill, Mattia Limongelli, Giuseppe Capogrossi, Amerigo Tot, che più volte tornerà nella sua «amata Vietri», Turcato, Guttuso, Sanguineti, Menna, Argan ed altri diventa un flusso di vitalità inarrestabile e tonificante per la ceramica di Vietri.

    Le innumeri botteghe artigiane ospitano tutti e gli artigiani meditano con saggezza sulle nuove proposte. Un lavoro costante e multiforme che oggi viene ancora proposto nei motivi della tradizione da Biagino Cassetta e nelle spinte innovative di Salvatore Autuori.

    «Sotto la mia terrazza, fra due piccoli faraglioni, i ragazzi si tuffano nell’acqua.

    Quando mettono fuori la testa, mi gridano: “vieni giù professore, son diventato un pesce” Non posso cambiarmi in pesce… Io mi trasformo in nuvola» Così nel 1965 su “L’Amico di Vietri” Giuseppe Prezzolini, testimone acuto e attento di un secolo di storia culturale italiana e cittadino onorario di Vietri.

    Più avanti il Professore scriveva: «Vivere tra le nuvole è vivere in libertà. Ora quando vedete una nuvoletta che attraversa lentamente il cielo, s’attarda a guardare il mondo, pensate che forse mi sono trasformato in quella, son fuggito come un fumo di sigaretta e sto recuperando una innocenza lontana come se mi fossi tuffato in quel mare sotto la mia terrazza dove appaiono e scompaiono le teste dei ragazzi e quella della mia donna, che m’invitano a diventare un pesce. Un pesce non posso, ma una nuvola si».

    Anche il vecchio e saggio Prezzolini si scioglie in poesia di fronte a questo mare che continua a rimandare storie antiche di miti e leggende, di uomini legati alla loro memoria storica come le grosse pietre incatenate nel grande tino del mulino a macerare il bianco Vietri.

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