Nel Parco 106.027 persone vivono in 74 comuni divisi in oltre 100 borghi al di sotto dei 1.000 abitanti

L'Italia minore sta collassando! Mantenerla in vita è una priorità

Salvare i paesi di montagna e consentire alle comunità residenti di mantenere i livelli minimi di vita in comune è nell’interesse di tutti.

Attualità
Cilento sabato 01 luglio 2017
di Bartolo Scandizzo
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Mappa comuni del Cilento © unico

Stiamo parlando della “nostra” di Italia. Quella pedemontana e quella che sopravvive nelle aree interne. A parte qualche area felice, localizzata in Toscana, Umbria e Lazio, i dati della desertificazione sono inesorabili. Lo sono ancora di più nell’area del Parco Nazionale del Cilento, Diano e Alburni dove su 265.316 abitanti nei 94 comuni situati nel perimetro del parco e nelle aree contigue, 106.027 vivono in 74 paesi che contano meno di 3000 abitanti (22 con meno di 1.000, 19 tra 1.000 e 1.500, 16 tra 1.500 e 2.000 e 17 tra 2.000 e 3.000).

Oltre a questi dati, che già di per sé danno un quadro desolante, bisogna considerare che molti di questi comuni si “scompongono” in altre piccole frazioni che abbassano ancora di più la soglia di vivibilità che non riesce ad alimentarsi come gruppo sociale per continuare a considerarsi una comunità.

È stato un abbandono iniziato già con le prime emigrazioni di fine ‘800 e poi cresciute in modo inarrestabile nel 1° e nel 2° dopoguerra. Negli anni ’60 del ‘900, poi, c’è stata la migrazione interna verso il Nord dell’Italia, verso la fascia costiera Cilentana e nei grandi centri urbanizzati della Piana del Sele: Capaccio, Eboli, Battipaglia e Salerno.

Più recentemente, anche i comuni pedemontani si sono svuotati per andare ad accrescere a dismisura le zone più pianeggianti e vicine al mare come Altavilla Silentina con Matinella, Capaccio con Capaccio Scalo, Pollica con Acciaroli, Castellabate con S. Maria, Casalvelino e Ascea con le marine, Centola con Palinuro, Camerota con la Marina, S. Giovanni a Piro con Scario, Atena con Atena scalo, Sassano con Silla …

Tutto ciò ha comportato forti investimenti pubblici e privati in quanto, oltre alle spese di costruzione di un’infinità di prime e seconde case, si è dovuto provvedere a dotare i nuovi centri urbani delle infrastrutture primarie e secondarie: in molti casi lasciandosi guidare dalla deregulation.

Oggi nelle aree interne c’è l’impossibilità dei comuni di montagna di gestire anche i servizi essenziali oltre al rischio sismico e idrogeologico diffuso.

Anche le risorse destinate alla cura della persona sono utilizzate più per mantenere le strutture organizzative come i Piani di Zona, Ospedali, SAUT … che per rendere efficiente i servizi alla persona.

Da centri, molti di questi comuni, sono diventate periferie con la delocalizzazione di servizi e strutture decisionali oltre alla chiusura di negozi e l’estinzione di scuole dell’infanzia e primarie.

In molti casi è rimasto solo la casa comunale e il cimitero a testimoniare che è il “capoluogo” di quel paese.

È stata fatta una scelta di sviluppo che privilegia gli investimenti nei “nuovi” centri e non si è scommesso su un’Italia minore che pure è una ricchezza del Paese. La montagna non porta voti. I politici lo sanno, anche se in molti sono figli di quel mondo.

Con fatica e senso di appartenenza, invece, altre realtà hanno intrapreso la faticosa strada di tentare di risalire china come in Emilia, Trentino, Toscana, Umbria, Lazio, Marche, Abruzzo, Molise … bisognerebbe allungare il “collo” e tentare di copiare qualche soluzione. Investire con criterio le risorse destinate ai paesi delle aree interne, immaginare strategie per riportare nuclei familiari nelle case lasciate al loro destino da chi è andato via per cercare e fare fortuna altrove … Insomma è ora di fare qualche passo nella direzione giusta dopo aver sprecato energie ad invocare soluzioni “miracolose” come la costruzione di nuove arterie stradali “veloci”, il rifacimento di strade e illuminazioni nei centri storici quando le case sono assalite dagli eventi atmosferici e sono pronte ad accasciarsi su loro stesse un po’ alla volta.

C’è la necessità di individuare una strategia nuova e comunicarla in modo comprensibile ai “reduci” che si ostinano a presidiare la montagna.

Tommaso Pellegrino e Salvatore Iannuzzi, presidenti rispettivamente dell’ente e della Comunità del Parco, hanno fatto un primo passo dandosi un “Piano Programmatico” approvato all’unanimità dai sindaci presenti nella Comunità del Parco. È un buon inizio, ma è necessario che tutti prendano coscienza che è nelle aree interne. Questa è la sfida su cui si valuterà la loro capacità di agire nell’interesse generale.

Sì, perché conviene a tutti che l’Appennino venga presidiato da comunità destinate a vivere più che “sopravvivere” finché è possibile.

Anche da noi si vedono giovani tornare alla campagna, dissodare terreni incolti da decenni, scommettere su scelte nuove: agricoltura biologica, pastorizia, agriturismi, turismo ambientale. Ma attorno a costoro è come se mille voci ripetessero: “Ma chi te lo fa fare …”, “I Comuni sono in bolletta … e tu ti romperai le corna contro infiniti problemi …”.

Gli Alburni, il massiccio del Cervati, il monte Stella, il monte Gelbison e il monte Bulgheria sono montagne antiche e vi sono insediate ancora “sacche” di “resilienza” che solo il “fine vita” potrà far recedere. Questa è l’eredità su cui “il dopo di noi” potrà poggiare le fondamenta del futuro.

Cedere il passo ad una montagna desertificata sradicherebbe i nostri nipoti dalla loro “madre terra” per consegnarli ad un mondo di “stranieri in patria.

Salvare i paesi di montagna e consentire alle comunità residenti di mantenere i livelli minimi di vita in comune è nell’interesse di tutti.

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