In un tempo in cui lo sviluppo sembra parola svuotata, Gerardo Spira restituisce al termine la sua forza originaria: costruire insieme.
Il suo è un manifesto che chiede coraggio, coerenza e, soprattutto, amore per la propria terra.
Non per conservarla, ma per renderla viva, giusta e abitabile. Da tutti. Per tutti.
Dottor Spira, lei ha scritto un lungo intervento in cui parla apertamente di una “cultura della frantumazione politica territoriale” che ha frenato lo sviluppo del Cilento. Cosa intende?
«Intendo dire che, per troppo tempo, la politica locale ha guardato solo al proprio campanile. Una visione chiusa che ha costretto le nostre comunità a restare fuori dal mercato. Abbiamo ridotto l’offerta turistica a pochi periodi, spesso senza qualità e senza strategia. E, quel che è peggio, non abbiamo saputo usare l’istituzione del Parco come occasione per valorizzare la nostra storia millenaria, i centri storici, i luoghi della civiltà contadina e l’equilibrio secolare tra uomo e natura».
Lei sostiene che la corsa al turismo sia stata mal gestita. Perché?
«Perché le istituzioni non sono state pronte. Il turismo è stato vissuto come una corsa all’oro, senza progettualità. Si sono moltiplicate iniziative scollegate, senza alcuna prospettiva di qualità. Abbiamo visto vacanzieri di bassa qualità, eventi di occasione, spesso suggeriti da faccendieri e procacciatori di incarichi. Tutto è stato finalizzato al consenso elettorale, più che allo sviluppo territoriale. Una confusa lotta per accaparrarsi visibilità e denaro pubblico. Così è stato firmato uno scellerato patto territoriale, responsabile della vita e della morte politica dell’intero territorio».

Parla anche di infiltrazioni nei comitati e nelle cooperative legate al turismo. È un’accusa forte.
«È la verità. Nella voce “turismo” è finito di tutto: associazioni, comitati e cooperative, spesso guidate da personaggi infilati nei circuiti del potere locale. Una rete opaca che ha diretto il traffico del bisogno e della sopravvivenza. Questo sistema ha soffocato ogni reale sviluppo democratico, impedendo alle nuove generazioni di vedere una prospettiva di vita nel proprio territorio. Il posto di lavoro come ricatto. Ma oggi i giovani sono un’altra storia. La loro coscienza si è riaccesa. Il futuro non si può toccare né mercanteggiare. Il futuro è un tempo che può esistere solo con la loro partecipazione».
Nel 1997, al convegno di Pioppi, Angelo Vassallo lanciò un’idea nuova. Lei c’era. Cosa ricorda?
«Ricordo che Vassallo ruppe gli schemi. Parlava di ambiente, di legalità e di sviluppo integrato. Diceva che i paesi fanno il Paese. E che il Parco non lo ha fatto una legge, ma le persone che per millenni hanno abitato questo territorio secondo un modello di vita in simbiosi con la natura. Il suo pensiero era già oltre: superava i confini e le rivalità. Invitava a guardare alla dieta mediterranea come stile di vita e come chiave per un turismo non stagionale, ma distribuito su 12 mesi. Diceva che, per andare avanti, bisognava tornare indietro. Trovare nel passato la chiave per il futuro».
La pandemia ha svelato fragilità profonde. In che modo questo rafforza la vostra proposta?
«Ha mostrato ciò che da tempo diciamo: il declino comincia quando si abbandona l’ambiente di vita dell’uomo. Pietro Lia ha ricordato un pensiero di Fabrizio Barca: il vero vulnus è lo spopolamento. E Vito Teti ha detto una cosa preziosa: “Ogni luogo può essere periferia o centro del mondo”. Le comunità non devono diventare oggetto di nuove mode o speculazioni. Bisogna ristabilire un rapporto con la terra, il paesaggio, gli animali, le persone. Solo così si può parlare davvero di rigenerazione».
Qual è, allora, la via concreta da seguire secondo lei?
«Una politica territoriale diversa. Una programmazione urbanistica e ambientale che coinvolga tutto il Parco come realtà omogenea. Paestum, Velia, Capo Palinuro, la Certosa di Padula, le Grotte di Pertosa, il Monte Cervati e le Gole del Calore, ma anche ogni singolo borgo, devono essere parte di un’unica visione di sviluppo. Servono infrastrutture ecocompatibili, sicurezza, risorse idriche e una linea comune di sviluppo urbanistico. E tutto deve partire da una programmazione pubblica, condivisa e trasparente. Le iniziative private sono benvenute, ma devono inserirsi in un disegno collettivo».
Il progetto che propone è destinato a rimanere nel cassetto o ha gambe per camminare?
«Il progetto va proposto all’Europa, anche per settori. La legge lo consente. Bisogna partire dalla Comunità del Parco, dalla cultura politica che non deve più essere chiusa nei confini. I giovani devono essere messi in condizione di essere padroni del proprio futuro. Convegni, incontri pubblici e il web: tutto deve servire ad allargare la discussione e a dare voce a chi ha a cuore il destino del territorio. Dobbiamo sbloccare il Cilento da ogni forma di sistema che ne ha intaccato la libertà e la dignità. E, per farlo, dobbiamo mettere insieme diritto, legge e giustizia in una sola direzione: per tutti».
Una battuta finale, per chi ancora spera.
«Oggi più che mai occorre una riconversione culturale e politica. Una ribellione gentile, ma radicale. Non è troppo tardi. Se ripartiamo dal rapporto tra uomo e natura, lungo il percorso della nostra storia, possiamo ancora riscrivere il futuro. Il Parco non è un simbolo. È la nostra possibilità più autentica di rinascita».



