Ci sono luoghi in cui l’inverno domina per mesi e la luce del giorno sembra esitare tra le montagne innevate.
In quei villaggi remoti della Norvegia, dove il clima è duro e le distanze sono grandi, si osserva qualcosa che colpisce chi vive nelle nostre aree interne italiane: alcune comunità riescono ancora a mantenere vitalità, molte famiglie scelgono di rimanere, e non pochi giovani continuano a investire nella propria terra.
Non accade ovunque, e non sempre con successo, ma è il risultato di politiche pubbliche che da anni cercano di ridurre gli squilibri territoriali.
In Italia, invece, le aree interne continuano a soffrire.
Dalle Alpi all’Appennino, dalla Sardegna interna alle terre lucane, fino al Cilento, al Vallo di Diano e agli Alburni, lo spopolamento è diventato una ferita che si allarga.
Le scuole chiudono quando gli alunni diminuiscono, la sanità arretra perché mantenere presìdi ovunque non è più sostenibile e i servizi pubblici diventano sempre più rarefatti.
Eppure viviamo in un Paese ricchissimo di cultura, storia, eccellenze e identità.
Il problema non è ciò che abbiamo, ma ciò che non riusciamo a trasformare in sviluppo nelle zone interne.
La Norvegia non rappresenta un modello perfetto, ma mostra una direzione chiara.
Lì, consapevoli della fragilità dei territori remoti, il governo ha scelto di investire in infrastrutture moderne, collegamenti efficienti, servizi digitali avanzati e incentivi mirati per sostenere imprese, famiglie e lavoratori che vivono lontani dalle grandi città.
Non tutte le comunità resistono, non tutte crescono, e anche in Norvegia molte aree rurali stanno perdendo popolazione.
Ma lo Stato ha chiarito un principio: anche chi abita nei luoghi più isolati deve poter avere accesso a servizi essenziali e opportunità.
La differenza con l’Italia non sta nella qualità delle persone né nella bellezza dei territori.
Sta nell’approccio.
Da noi, per decenni, le risorse destinate allo sviluppo locale sono state disperse in una moltitudine di micro-progetti senza visione, spesso distribuiti un pò per tutti per ragioni di consenso elettorale.
Si è preferito far arrivare un piccolo intervento in ogni comune invece di realizzare infrastrutture strategiche.
Così sono nati edifici senza funzione, sale polifunzionali sempre chiuse, musei restaurati e mai aperti, spazi culturali isolati, opere iniziate e rimaste incompiute.
Una somma di azioni scollegate che non ha prodotto sviluppo.
Dire la verità è necessario: la dispersione delle risorse ha impedito all’Italia di costruire politiche territoriali efficaci.
Quando invece una comunità abbandona la logica del “qualcosa per tutti” e sceglie poche opere utili a molti, cambia tutto.
La qualità prevale sulla quantità.
Un’unica infrastruttura funzionante vale più di dieci interventi inutili.
Un polo scolastico moderno vale più di tre edifici vuoti.
Un servizio sanitario organizzato in rete, con presidi attrezzati, equipe mobili e telemedicina, è più efficace di un ambulatorio simbolico in ogni comune.
Una rete di trasporti coordinata crea più sviluppo di mille promesse isolate.
Un museo aperto e vivo genera più cultura e lavoro di dieci musei chiusi.
Superare la Norvegia non significa copiarla.
Significa prendere ciò che funziona — continuità nelle politiche, investimenti ponderati, strategie territoriali — e adattarlo alla realtà italiana, costruita su paesaggi, culture e storie uniche al mondo.
Significa soprattutto scegliere una classe dirigente capace di guardare lontano: amministratori che rinunciano ai privilegi inutili, che non inseguono il consenso immediato, che concentrano le risorse sulle opere decisive e che costruiscono politiche efficienti, coordinate e capaci di durare più di un mandato.
Immagina un’Italia che abbandona la frammentazione e ritrova la coerenza.
Immagina aree interne dove la connessione internet è stabile, la sanità è vicina anche senza essere sotto casa, le scuole sono vive e innovative, i musei sono aperti e raccontano la storia del territorio, i trasporti funzionano e le imprese trovano condizioni reali per crescere.
Immagina famiglie che restano perché c’è qualità della vita, giovani che tornano perché trovano lavoro e comunità che si rigenerano grazie a scelte solide e non a interventi episodici.
Questa non è fantasia: è un cammino possibile.
La Norvegia non ha vinto la sfida contro lo spopolamento, ma ci mostra che un’altra via esiste.
L’Italia può non solo percorrerla, ma migliorarla, perché ha risorse culturali e umane ineguagliabili.
La rinascita non avviene con i piccoli favori.
Avviene con le grandi visioni.
E tutto comincia da una scelta di verità: smettere di promettere ciò che non serve e iniziare finalmente a costruire ciò che può cambiare davvero la vita delle persone.



