Cari morti, cari sopravvissuti al crollo di un ponte sospeso su una città, vi scrivo a nome mio e di quanti, ogni giorno, passano sotto gli altri sessantamila ponti costruiti in Italia. Vi scrivo a nome di chi entra fiducioso nei tunnel stradali, autostradali e ferroviari, su pullman, automobili e Tir, lungo statali e provinciali.
Siamo gli stessi che continueranno a farlo anche nelle ore di lutto, perché non possiamo né vogliamo fermarci in attesa di controlli e verifiche. Vorrebbe dire smettere di vivere. Così come nessuno smette di mandare i figli a scuola in attesa che migliaia di edifici siano messi in sicurezza; nessuno smette di curarsi in ospedali fatiscenti; di abitare case vecchie; di vivere accanto a fiumi dagli argini fragili; di prendere il sole in attesa che il buco nell’ozono sia chiuso; di restare in collina per paura che i ghiacciai si sciolgano.

Noi siamo chi voi siete stati, per voi che siete morti, e chi voi sperate di tornare ad essere, voi che siete sopravvissuti. Siamo la gente comune che confida nello Stato, chiamato a salvaguardare la vita in ogni circostanza. A volte ci riesce, altre no. E lo fa anche contro di noi: quando fumiamo, ci droghiamo, ci ubriachiamo, non ci vacciniamo, rischiamo la vita per sfida o imprudenza.
Eppure molti lo insultano, lo accusano, lo condannano senza appello. Ma lo Stato siamo noi: il vigile del fuoco e il poliziotto, il medico e l’infermiere, il maestro e il bidello, il presidente del Consiglio e i ministri, il giudice e il cancelliere, il deputato e il senatore, l’operaio e l’imprenditore, il commerciante e il consumatore.
Cari italiani che avete incontrato la morte in un giorno di pioggia, per un terremoto, per un crollo, per una violenza o per la voglia di strafare: con voi è andato via anche un pezzo di noi, insieme a un frammento della credibilità dello Stato, già ridotto a brandelli da spinte contrarie e illusioni di ricostruzione immediata. Ma come dopo un terremoto, un’alluvione o una guerra, solo il tempo e la paziente opera dell’uomo potranno rimuovere le macerie, progettare e realizzare nuove opere.
Se la vostra esperienza e il vostro sacrificio serviranno a evitare altre tragedie, non sarà stato vano. Le lacrime dei vostri cari non saranno state versate invano. Le vostre vite spezzate o ferite rimarginate resteranno un monito per il futuro. Eppure non possiamo permetterci di cedere all’oblio e alla rassegnazione.

Ogni tragedia, ogni ingiustizia, ogni crollo non deve solo ricordarci la fragilità della vita, ma la forza che possiamo mettere nella cura reciproca e nella costruzione di un futuro più sicuro.
La speranza non è un’illusione: è la scelta quotidiana di non dimenticare, di trasformare il dolore in memoria attiva, la memoria in azione, l’azione in cambiamento. Solo così le vostre vite spezzate non saranno state vane.
Solo così i sopravvissuti potranno tornare a vivere davvero. Solo così noi, insieme, potremo avanzare verso un domani che non sia più fatto di macerie, ma di fondamenta nuove e solide.



