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    La Scvola di Atene

    A Severino Boezio nel 1500° della sVa morte

    Di Bartolo Scandizzo3 Dicembre 202411 Min Lettura144 VisiteNessun commento
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    Scvola di atene – tavola – xxxvii – lxxi – epistola seconda. Si vanti pure e gridi alto di Severino Boezio la magnifica città di Roma il nome!

    Ad Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma 477 d.C. – Pavia 524 d.C.) figlio di Manlio della città di Roma che al suo triste stato fece della “Filosofia” somma “Consolatio” … il mio saluto! (Severino Boezio “De Consolatione Philosophiae” libro I ) 

    E’ arrivato il tempo che io ricominci il mio cammino e celebrando dell’anno secondo i “Dialoghi tra Cielo e Terra” di Albanella ed il tuo mille e cinquecentesimo anno della tua morte, maestro Boezio, tosto mi incammini per quei “floridi sentieri” della filosofia che soli portano con se stessi alla pace con la speranza e non saranno i tuoi patimenti o il tuo “sacrificium”, maestro, a guidarmi, ma anco di questo nostro tempo ingrato i giorni “scarsi”, che senza futura meta, nel desiderio di sé sconfinato, si gode malamente del presente e grida, del passato auspicando sicura morte, libertà.

    Ed io che, come già di Dante gli indovini, “in dietro venir li convenia (di guardare) perché ’l veder dinanzi era lor tolto” all’indietrodi te, maestro, cammino, coltivando il tuo tempo ed il tuo metro, non mi “rattrovo” ed ostinato ritenendo il mio presente il mio passato sotto di te mi riparo. E “stando di notte nel segreto raccoglimento, solo” della mia amata cella, dove disordinatamente sparse sul mio scrittoio ampie si diffondono le tue carte, io ti scrivo, maestro, implorandoti di raccogliere e di ascoltare il mio grido e di dare, per la scienza e la coscienza che non mancò, sostanza alle mie parole.

    Parole fragili del tuo immenso sapere cagionevoli ma oneste et “latine” di una volontà remota che non fu già la mia ma la tua, maestro, di quando, accusato di quel “crimen maiestatis” che forse non mai commettesti, ma solo amasti Roma ed il suo governo, fosti in quella torre del battistero della chiesa di Calvenzano in terra di Pavia carcerato et indi di poi torturato e strangolato, venne quella Donna “di molta reverenza degna in vista” a visitarti e avvicinandosi si “sedette su la sponda estrema del tuo lettuccio e, osservandomi il volto desolato e sprofondato al suolo per la tristezza” e fu mistero quel tuo cammino e quel tuo libro che consegnato al mondo fu la tua salvezza e la tua gloria. Ed ella, che di filosofia era la Signora,ti parlò e tu ascoltasti e mosso da tanti dubbi, come colui che è stato a lungo ospite della creazione ed al suo ospite deve la cortesia del domandare, domandasti e da discepolo che si guadagna il vanto di superare il maestro, decisamente avanzasti, umilmente, procurandoti in quello che fu già dei tuoi Padri la felice accettazione di quei beni, che sol a Lui appartenendo, la Fortuna, leggi pure, lettore, come più avanti dimostreremo, di Dio la Provvidenza, togliendo e concedendo, distribuisce sempre e solo a nostro beneficio.

    Ricordi, maestro Boezio, quando “magister officiorum” del “cor” del Goto tenendo “ambo le chiavi… serrando e diserrando” del regno condividevi onore et onere e tanto portasti e portavi “fede al glorioso offizio,” chenulla temer potevi. Tanto con del re la fiducia era alta ed era alto il tuo officio chè nulla, pensavi, potesse mai tangere la tua felicità, quando improvvisa in agguato contro di te, maestro, inattesa si levò la “ruota” della mutevole Fortuna che girando a suo piacimento tutta ridusse la tua sorte in rovina e togliendoti onori, vanti, gloria e potere in una fredda e buia cella del battistero ti sprofondò.

    Ed a nulla valse del tuo vecchio suocero, del regno “stimatissimo” senatore l’appassionata difesa chè di contro avanzando “la meretrice che mai dall’ospizio di Cesare non torse gli occhi putti” avanzando “contra di te li animi tutti e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto che li lieti onor tornar in tristi lutti” più gravi si fecero le accuse e primo fra tanti, del mio amato Federico, fosti del Goto re il primo Pier delle Vigne. E quando isolandoti ti resero muto e prigioniero in quell’angusto carcere, a nulla della tua amatissima moglie Rusticiana valsero i suoi giorni tristi, di quando prima del convento che novella vedova l’accoglierà, tagliati i lungi capelli neri, peregrinando e lacrimando, addolorata la vedranno in ginocchio con i suoi due figli, ai piedi del tuo re che una volta, tu, maestro, amasti, servendolo in grande onore et “fidelitate”, mendicare, implorando il tuo nome, chè troppo del re  si era indurito il cuore e cieca et sorda s’allargava sempre di più dei tuoi nemici la schiera e la menzogna. Ma dal Cielo della Sapienza ove con Tommaso, Pietro e Riccardo in “ottava” luci, “valida venne” Filosofia e riconoscendola alla tua parte come la tua antica “maestra” chè mai abbandona e “senza compagnia” lascia chi nel dolore piange e “innocente” langue,devotamente la apostrofasti e avviandoti con Lei in guida per i “floridi sentieri” della ragione tosto venisti alla meta e di contro agli antichi ed a qualche tuo superstizioso amico che al “fortuna” scompostamente e senza nesso gli assegnava di agire, capisti che solo Dio nella sua “assoluta semplicità” governa il mondo e gli uomini e nulla accade a “caso” ma tutto è sottoposto alla divina Provvidenza di Dio. Ed allora se Dio è onnipotente e buono e tutto contro il “caso” governa il mondo e “tutto regge l’universo con il timone della bontà e tutte le cose gli obbediscono volontariamente e non esiste alcuna sostanza del male” come mai, ti domandasti nella prosa III del libro III, e furono tanti i tuoi dubbi, i malvagi spesso possono agire e restare impuniti e quel che è peggio i buoni, anziché essere premiati vengono addirittura al posto dei malvagi puniti? Et io, come mai, che di false accuse fui innocente in castigo senza colpe giaccio? Troppo, o mio discepolo, ricordi, ti rispose allora Filosofia, ti fa difetto della divina Provvidenza la conoscenza e paradossalmente di contro affermando che i buoni sono sempre potenti e i malvagi sempre deboli e che i buoni sono sempre premiati ed i malvagi sempre puniti, così argomentando ti ammonì: “l’origine di tutte le cose e tutto il procedere delle nature mutevoli e qualsiasi cosa che in certo modo si muova sempre dalla immutabilità della mente Divina riceve le proprie cause, il proprio ordine e le proprie forme. E tale regola è stabilita dalla mente di Dio, tanto che quando la si guarda a livello della sua intelligenza Divina, Provvidenza viene nominata, mentre, come fu già degli antichi, quando la guarda riferita al mondo molteplice del divenire “fato o fortuna” viene nominata” Perché, continuò Filosofia, l’azione di Dio sul mondo, è simile ad un artista (leggi pure, lettore, con Platone il suo Timeo) che modellando la creta ne plasma con le mani e con la mente la forma e il contenuto, Così muovendo la Divina Provvidenza la “mutevole ruota della fortuna”, che solo a chi è incapace di comprendere questo ordine gli sembra ruotare alla cieca   “confusamente” , chè sempre, maestro, ci ricorda Filosofia (leggi pure, lettore, di Aristotele il suo Motore Immobile che sarà poi del divin Poeta, dei suoi cieli il moto), ogni azione ed evento da un primo Motore immobile è generato “in un indissolubile nesso di cause” concatenato e sempre verso il bene” indirizzato. Tanto che osando, contro chi questo “ordine inflessibile di cause” contesta, di affermare, che governando la Provvidenza “nel miglior modo” gli eventi, che “se alcuno diffinisse il caso essere uno avvenimento temerario e non prodotto da concatenazione e legame alcuno di cagioni; io allora dico per fermo, che il caso veramente non è nulla…perchè il nulla non produce nulla”. Ed anche quando zappando la terra per lavorarla, qualcuno trovando un tesoro dovesse credere agente il “caso”, io, Filosofia, affermo anche questo che “non è già nato dal nulla… perchè se il lavoratore non avesse zappato la terra, e se colui, che la vi pose, non avesse in quel luogo appiattato la moneta, l’oro non vi sarebbe stato trovato e… dunque le cagioni di quel guadagno fortunevole… non dallo intendimento di colui, che opera, procede” ma “dalla fonte della Provvidenza che tulle le cose ne’ debiti luoghi e tempi dispone”.

    E così fatto chiaro che sol la Provvidenza di Dio governa e dispone e chenoi uomini, troppo spesso chiusi dal nostro egoismo, non sappiamo né giudicare né distinguere chi tra gli uomini sia veramente buono e chi sia veramente malvagio “o se lo sappiamo non sappiamo che cosa davvero convenga a ciascuno” ci lamentiamo della nostra sorte e di come la “Fortuna” agisca e faccia ruotare la sua ruota. E contro di Dio ci rivoltiamo, superbamente reclamando i nostri supposti crediti e non capiamo che di contro anche le avversità Dio, nella sua bontà, dispone per noi per il meglio. Tanto che anche tu, maestro, che in principio del tuo libro lamentavi “Io, che cantai canzoni nel fiore dell’alacre ingegno, ahi dal dolor sospinto, flebili versi intono”, fatto oramai del tuo lungo cammino con Filosofia “latino”, con serenità  potesti così chiudere il tuo libro e proclamare che “havvi al di sopra Dio presciente, spettatore di tutti gli eventi e la eternità sempre presente della sua visione che sempre si accorda con la futura qualità delle nostre azioni  giustamente dispensando ricompense ai buoni e gastighi ai malvagi”.  

    Ed ora, maestro, che con il caso abbiamo per la ragione messa la Fortuna e la nostra vita sotto il governo della Provvidenza e tutto abbiamo concatenato all’ordine divino ed alla sua pre-scienza che non è per l’uomo delle sue azioni necessaria necessità o previdenza che il libero arbitrio all’uomo incatena ma sol piena, immobile coscienza eterna dell’umano fluire del mondo, che di contro posizionandosi nel tempo inesorabilmente cammina consumandosi, noi, che di donna Filosofia pure tenemmo umilmente qualche passo ci consegniamo, maestro alla tua sapienza ed alla tua conquistata pace e confortati da un Altro assai più grande, anche io verrò alla tua parte e con i suoi “eroi” che “conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore” anch’io ne farò tesoro, e sarà, non prima che io sciolga un debito, il mio congedo. Quando, infatti, nel pieno del mio impegno professionale mi ritrovai in Milano in commissione e fui per riverenza, in quella tua città che ti fu ultima, ad onorare la memoria di un Grande di Lucania che ancora giovane lì in quella città affidò volontariamente la sua vita al Ticino, io ti ignorai chè preso da spirito rivoluzionario non capivo né potevo sentire il dolore alto di un uomo che pur votato al potere aveva della sua vita, per amore di Roma e delle sue leggi, fatto estremo sacrificio ed imperterrito continuai per la mia strada. Ma ora il mio ultimo tratto fatto di viaggi avaro e più mi pesa il camminare, ti prometto, maestro Boezio, di venire in Pavia e in quella chiesa di San Pietro dove con il tuo primo maestro, Agostino, quella antica cripta accoglie, in una urna d’oro, il tuo, da due chiese venerato, santo corpo e in ginocchio davanti a te di quel divin Poeta che dopo la lettura della tua “Consolatio” confessa essersi allo studio della filosofia avviato, reciterò la mia preghiera e di quel Sommo in compagnia dei suoi immortali versi “or se tu l’occhio de la mente trani /di luce in luce dietro a le mie lode, /già de l’ottava con sete rimani. Per vedere ogne ben dentro vi gode /l’anima santa che ‘l mondo fallace /fa manifesto a chi di lei ben ode./ Lo corpo ond’ella fu cacciata giace /giuso in Cieldauro; ed essa da martiro /e da essilio venne a questa pace” che scolpiti nella pietra affissa a fianco della maestra porta della chiesa ancora ti addita a quel luminoso quarto cielo del Sole che fu già dei Sapienti e dove con Tommaso, Pietro e Riccardo tu luci e splendi.

    E forse a quel viandante pellegrino, che, come Giovanni in Patmo che lo vide, cercando alla tua urna “un cielo nuovo e una terra nuova” lo troverà e piantando in Dio il suo bastone, come già un altro Grande e facesti tu, maestro, silenziosamente si avvierà ed io con lui “pei floridi/  sentier della speranza, /ai campi eterni, al premio/  che i desideri avanza, /dov’è silenzio e tenebre /la gloria che passò”. Grazie, maestro!

    Questo, maestro, il mio epigramma: “Tanto di Roma amasti l impero che di contro al Goto non furon mistero i tuoi voti che il battistero puni’”.

    C’è poi di Pietro Lombardo un altro epigramma: “Col cuor forte patì simile a leone e fu novello Socrate, Anassagora, Seneca e Zenone”

    Questo, maestro, nei giorni del novembre indulgente il mio stato e l’amore imprudente… il fiore che ti porto!

    Chiusa nelle prime ore antimeridiane del giorno di lunedì 25 novembre dell’anno 2024

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