Patria di templi antichi e trasformismi moderni, Capaccio Paestum è il luogo dove l’identità partitica si scioglie ad ogni imbocco di rotatoria, e dove, per quanto assurdo possa sembrare, e sebbene sfidino ogni comprensione umana, hanno una loro logica.
C’è un luogo, affacciato tra le rovine gloriose della Magna Grecia e le rotatorie moderne che tutto inghiottono, chi proviene da sinistra o da destra, dal centro o dall’alto, senza nessuna differenza o precedenza, dove la politica ha smesso da tempo di essere una questione di idee. A Capaccio Paestum, infatti, l’identità politica è diventata qualcosa di così fluido che persino un camaleonte, in confronto, sembrerebbe rigido nelle sue scelte cromatiche. Qui, il concetto stesso di appartenenza ha perso i contorni netti che un tempo ne facevano un elemento distintivo, quasi identitario. La geografia partitica locale, incomprensibile nella sua moderna lettura, è ormai simile a quella delle vecchie mappe medievali: piena di sirene, mostri marini e …territori inesplorati. Uno scenario politico che assomiglia più a una leggenda antica che a un organigramma istituzionale, quasi a richiamare il racconto francese, Roman De Renart (o Reynard), dove la protagonista, una volpe astuta inganna, in una società feudale moralmente corrotta, nobili, re, pastori e cittadini.
Ci sono ex di un dato partito, ormai irriconoscibile e sempre più in discesa, che oggi, con passo fiero e disinvolto, e forse anche con un po’ di presunzione, marciano sotto le insegne di partiti significativamente all’antitesi dei primi. Nessun imbarazzo, nessuna esitazione. Altri, forse nostalgici dei toni moderati ma decisi della “Prima Repubblica”, trovano riparo in porti dove qualcun altro spera che dalle sue navigate imbarcazioni, senza vele e senza remi, scarichi container di voti e li trasporti verso coloro che hanno assunto il ruolo di indiscussi decisori della politica locale, i quali aspirano, nel prossimo futuro, a ruoli elettivi molto più graditi. Ecco allora che qui si intravedono tratti quasi poetici, se non patetici, a metà tra la lirica narrativa e la sopravvivenza strategica nei ruoli politici. È una grammatica difficile da comprendere, quanto tanto facile è il suo manifestarsi nei luoghi e negli individui. Non mancano altresì i giochi di prestigio, i cambi di rotta improvvisi, i ritorni inaspettati e le alleanze improbabili, strette in nome di un bene superiore, che spesso coincide con il mantenimento di una posizione, di un ruolo, di un protagonismo, da tutelare come reliquia sacra. Altro che “per il bene del territorio”! No, non parliamo di tradimento o di voltagabbana. Ci mancherebbe altro. Sarebbe ingeneroso. È lecito cambiare idee, ognuno è libero di farlo. Allora possiamo parlare di evoluzione personale, maturazione ideologica o, più semplicemente, di “esigenze” …(ehm)…del territorio?
Necessità che, evidentemente, mutano con le stagioni, con i fatti e con il volerci essere a tutti i costi. E come i fichi d’India che spuntano qua e là nella Piana del Sele, seppur pochi se ne vedono, anche le promesse politiche sembrano germogliare ovunque, qui addirittura si riscontrano calcoli matematici degni delle più complesse operazioni di sintesi algebrica. Ma se per ipotesi questi folgorati sulla via di Damasco, ai quali nessuno nega o confuta la scelta che hanno fatto, che fanno o che faranno, nel tempo che fu hanno fatto o si sono resi silenti su errori compiuti verso la comunità, se si sono resi disgustati, quasi, nell’avversare i partiti di cui oggi ne fanno parte, se, sempre per ipotesi, uno o più di loro hanno così aspramente oltraggiato la nobile arte del principio dialogico, preferendo l’arroganza, il protagonismo, il centralismo, l’ego sum, e via dicendo, oggi, se così facile è stato farsi ospitare in partiti diversi, dovrebbe essere altrettanto facile ammettere (qualora vi siano stati) errori commessi e/o ai quali hanno sottaciuto, mentre altri della stessa compagine li commettevano? È solo una ipotesi, o forse no?! Chissà, tuttavia è un territorio questo che per anni ha subito le più disperate situazioni: politiche, fantapolitiche, culturali, sociali ed economiche. Quest’ultime attualmente ancora più incisive sulla vita dei cittadini.
Dunque, tutto è diventato relativo: le alleanze, i programmi, le dichiarazioni, le comunicazioni, ecc. Ogni cosa si adatta, si plasma, si modella secondo logiche che nulla hanno a che vedere con l’interesse pubblico o con visioni programmatiche, ma solo per se stessi. E in questo panorama così mutevole, si distingue una figura sempre presente, onnipresente quasi: poi ci sono loro, quelli bravi, al di sopra di tutti. Dirigenti chissà di cosa, strateghi da corridoio, registi che senza copione invitano a recitare ruoli, ora da protagonisti, ora da semplici comparse. Figure mitologiche, potremmo dire, un po’ politici e molto arrivisti, che influenzano, suggeriscono, indirizzano e ancor peggio decidono per gli altri. Interferiscono, direbbe qualcuno. E forse non sbaglia, considerando come e quante volte questo territorio è stato violentato, snaturato e sottomesso da entità extraurbana. Spesso non ci mettono la faccia — quella resta ben nascosta dietro gli slogan patinati dei social o tra le righe di comunicati tanto diplomatici quanto irrilevanti — a meno che non si tratti di passerelle ben organizzate, infarcite di favori all’amico di turno, dove la presenza di un pubblico compiacente serve solo a far gongolare di felicità questo o quell’altro politico in cerca di visibilità.
Parlano per interposti messaggi, spesso mediati da portavoce, post ambigui o comunicati costruiti con cura; lasciano intendere più di quanto dicano esplicitamente, coltivando l’arte dell’allusione strategica. Si presentano come interpreti autentici dei bisogni della cittadinanza, anche quando non hanno mai realmente ascoltato né compreso quelle istanze, limitandosi a raccontarle secondo una narrazione utile al proprio tornaconto. Eppure, in mezzo a questo carosello di appartenenze mobili e fedeltà passeggere, c’è una certezza: Capaccio Paestum è viva. Si dibatte, si agita, discute. E anche se talvolta la politica sembra una pièce teatrale in cui tutti recitano ruoli scelti all’ultimo minuto, è pur sempre un segno di vitalità. Caotica, certo. Confusa, spesso. Ma profondamente umana, vibrante. Quasi poetica, nella sua drammaticità quotidiana. Una piccola capitale del trasformismo, ma anche una palestra di resilienza sociale, dove la gente, nonostante tutto, continua a credere – o almeno a sperare – che qualcosa possa cambiare. D’altronde, cosa sarebbe la politica se non il riflesso, amplificato e un po’ stonato, delle comunità che rappresenta? E allora, in attesa del prossimo cambio di casacca, restiamo spettatori. Perché a Capaccio Paestum, anche il trasformismo ha un suo fascino arcaico. Quasi da sito archeologico. E come le colonne doriche che resistono ai secoli, anche certi comportamenti sembrano scolpiti nella pietra, eterni e immutabili.



