Uno strano destino quello della Sinistra italiana in eterno conflitto contro se stessa anche in questa campagna referendaria, persa in maniera prevedibile.
Era chiaro fin dall’inizio che non ci sarebbe stata una mobilitazione maggioritaria, non tanto per la mancanza di interesse sui temi trattati, quanto per uno scollamento progressivo del corpo elettorale verso l’attuale classe politica, la quale ricorre alle urne non sempre per dei nobili fini, quanto, a volte, per ragioni di bottega e di conteggio del proprio elettorato.

Diversamente non si spiegherebbe il perchè di una convocazione referendaria su alcuni quesiti, parte di una legge, il Jobs Act, approvato da una maggioranza parlamentare guidata dall’allora Segretario del PD Matteo Renzi.
Come se si volesse compiere una sorta di nemesi storica contro il suo recente passato riformatore.
La Sinistra italiana ci ha abituato spesso a delle guerre fratricide, tramando vendette e sentimenti di rivalsa che hanno spaccato irreversibilmente i rapporti tra le sue varie componenti.
Così fu per il referendum sul taglio alla “Scala mobile” promosso dal PCI e dalla CGIL nel 1985 e che li vide soccombere pur con una massiccia partecipazione popolare, pari a circa il 77%.
Con un ribaltamento dei ruoli, fu la Sinistra nel Governo Prodi ad approvare il “Pacchetto Treu” che diede il via alla precarizzazione del lavoro con l’adozione di strumenti quali il lavoro interinale, i CO.CO.CO etc.
E che dire del Referendum Costituzionale del 2016, dove la maggioranza di governo a guida PD fu battuta da una insolita alleanza tra le Destre e la Sinistra di Bersani e di D’Alema?
Si può dire che i referendum negli ultimi anni siano stati usati in cattivo modo, come uno strumento di lotta extra-parlamentare, per regolare conti e questioni che poco attengono alle tematiche proposte.
Lungi dall’essere quell’autentico veicolo di mobilitazione popolare come fu ai tempi delle battaglie sui diritti civili, divorzio e aborto o per la responsabilità civile dei magistrati.
All’epoca fu una minoranza parlamentare, guidata dal Partito Radicale e dal Partito Socialista a smuovere l’immobilismo di giganti quali la DC ed il PCI, riuscendo a coinvolgere una notevole massa di elettori sui temi del progresso.
Altri tempi ed altri leader, troppo frettolosomente liquidati ed archiviati, come se fosse scattata una specie di “damnatio memoriae”.
Eppure furono proprio i Socialisti nel 1969 a promuovere con Gino Giugni lo Statuto dei Lavoratori, approvato nel 1970 e reputato oggi una sorta di Bibbia dai post comunisti.
Quanto all’epoca, proprio il PCI si astenne, come il MSI, anche se per ragioni diverse, senza avere il coraggio di mettere la firma su una pietra miliare dei diritti dei lavoratori.
Fino a quando la Sinistra non riuscirà a ricomporre le sue fratture, riconoscendo i propri errori, ricostruendo una sua identità, non sarà mai maggioritaria nel Paese, né credibile verso l’elettorato che continuerà a latitare le urne proprio per la mancanza di programmi seri e di rappresentanti degni della propria storia.