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    I Viaggi del Poeta

    Lettera postuma a Parmenide e poesia a Zenone

    Di LIUCCIO GIUSEPPINO16 Gennaio 20208 Min Lettura2 VisiteNessun commento
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    Sono Stato a Velia-Ascea di recente nell’azienda dell’amica prof.ssa Maria Rosaria Trama, presso la Tenuta Colline di Zenone, per una bella serata di cultura e poesia, carica di emozioni profonde; e, naturalmente, è risuonato spesso, come era logico e naturale, il nome del Grande filosofo Parmenide, fondatore della Scuola Eleatica. Mi sembra giusto esaltarne il ricordo con una riflessione. Lo faccio recuperando una mia lettera postuma a Lui dedicata e pubblicata nel mio romanzo epistolare “TERRE D’AMORE: CILENTO E COSTA D’AMALFI” (Edizioni Delta) con il quale vinsi, qualche anno fa, il Premio Nazionale Francesco De Sanctis. La lettera è datata, ma ancora per buona parte attualissima.


    Caro Parmenide,

    ho parlato di te. Lo faccio spesso e per amore e per civetteria. Ero relatore ad una tavola rotonda, a Bologna, dove un gruppo di esperti autorevoli discettavano di turismo nel Mezzogiorno d’Italia. Per antico vezzo di formazione classica l’ho buttata sulla cultura e mi è andata bene, a giudicare dai consensi della platea, numerosa e, a fiuto, qualificata. Però un economista, schiavo di cifre, tabelle ed indici Istat, mi ha interrotto con apparente bonarietà, ma sottile perfidia, apostrofandomi con un “intellettuale della Magna Grecia”. Poteva sembrare un elogio ed era, invece, una sberla assestata con calcolato tempismo e con la pesante ironia di un sorriso mefistofelico soddisfatto. Un rapido flashback ed ho rievocato noti precedenti di un Avvocato Influente in vena di delegittimazione e di tentativo di ridicolizzazione di un Politico “loico” o di più recenti facezie di sedicenti “Celti” con la fregola di mitizzare una Padania inesistente a scapito di un millenario e sempre vivo Mezzogiorno. Mi è scattata la molla dell’orgoglio e mi sono incamminato con speditezza e spavalderia per i sentieri della tua “Via della Verità”, in un viaggio tanto avventuroso quanto stimolante dalle regioni cupe della “Notte” alle radiose plaghe del “Giorno”: ed ho tessuto l’elogio, con convinta partecipazione, del tuo tentativo ardito e riuscito di rottura con la sapienza mitico letteraria per approdare al rigore della riflessione filosofica e critica della scienza. E nella passione della polemica c’è mancato poco che nella tua ben nota teoria dell’Essere, che non nasce e non perisce, che non fu e non sarà, perché è ora tutto insieme, non facessi entrare finanche la moderna scienza statistica, che nell’aridità delle cifre è esaltazione dell’Essere e della Verità, in contrapposizione del Non Essere e della Opinione Un po’ ardita come tesi, ma ha funzionato, a giudicare dagli applausi scrosciati fragorosi e prolungati. Eppure giocavo in trasferta e quasi in terra straniera, in una Bologna ricca, gioiosa e tollerante, ma già a ridosso dei venti minacciosi dell’Oltre Po leghista.

    A cena una bella signora romagnola, sanguigna ed estroversa, una imprenditrice intraprendente, un po’ per celia un po’ per galanteria, mi ha sussurrato che in un uno sprazzo di foga del mio intervento le sono apparso come te “venerando e terribile” in quel tuo colloquio con Socrate ad Atene, sotto lo sguardo stupito ed ammirato dei filosofi della lobby greca e quello commosso e riverente del tuo discepolo/amante Zenone, che, giovane e bello come un dio, ti fu compagno di avventura culturale per legittimare” la supremazia della dialettica” nella città culla del pensiero e dell’arte. Quel giudizio mi ha inorgoglito, a parte l’impegnativo “venerando”, per il quale mi manca l’età, la barba e, naturalmente, la mole e l’importanza degli scritti. Però ho giocato lo stesso a recitare il ruolo di tuo erede culturale e, tra l’ammirazione generale, ti ho immaginato asserire orgoglioso: “Realtà è l’essere, uno immobile, apparenza fallace il divenire” là nell’agorà deserta in cima alla collina ventilata. E ci è parso a tutti di udire il tuo messaggio battere alle grotte, levigare gli scogli e trasmigrare all’argento degli ulivi nello stupore assorto della sera, alla conca d’Elea. Ed ho parlato di terme e di teatri, di filosofia, di letteratura, di medicina e dieta mediterranea in un sottile e calcolato gioco di transfert tra l’ieri e l’oggi. E mi sono improvvisato tour operator per amore della mia terra. E ti ho utilizzato come testimonial insuperabile di arte e di cultura, di storia e di tradizioni nobili. Ed ho tessuto l’elogio di quel gioiello d’arte e di cultura che è la “Porta Rosa” e di quel parco archeologico eternamente in fieri, dove tra l’acciottolato di strade levigate dal passo dei secoli e resti di templi e fori si aggira cupa e solenne la tua ombra con schiera di discepoli al seguito ed ho esposto con entusiastica partecipazione il progetto della Fondazione Alario per Elea-Velia con quel pezzo di Grecia classica trapiantato ad Elea e le intuizioni felici di un architetto geniale come Paolo Portoghesi: la multisala con la facciata maestosa da tempio greco, un gioiello di teatro che ripropone in piccolo quello di Atene, il portico peripatetico per i conversari dotti, l’eremitaggio oblò sul mare per il recupero del pensiero antico e quel monumento tra gli ulivi da cui tu, solenne e corrucciato, domini il tutto. Certo ho taciuto della edilizia da rapina che ha violentato costa, pianura e collina, di qualche campeggio-lager, di lunapark e baraccopoli a ridosso dell’area archeologica, della ferrovia che spacca in due la città antica, del museo di là da venire, della volgarità di qualche operatore turistico. È stato giocoforza tacere e stendere un velo di pietà su più di una verità intollerabile; ma l’ho fatto per difendere l’immagine della tua e della mia terra, illustre padre e maestro Parmenide, anche se tu mi hai insegnato di perseguire sempre la via della verità e non quella della opinione, di onorare “aleteia” e non “doxa”. Perdonami, maestro e padre, nume tutelare della mia terra. Ma anche tu difendesti con orgoglio la superiorità di Elea su Atene in quel tuo lontano viaggio in Grecia con il fedele discepolo Zenone. Ed in cuor tuo eri consapevole che, forse, così non era.

    Con ammirazione e devozione immutata ed immutabile tuo

    Giuseppe Liuccio


    Mi sento in dovere di esaltare anche la Figura del discepolo preferito di Parmenide, come è logico ed altrettanto doveroso, ZENONE noto come il teorico della dialettica e dei sofismi. È logico e doveroso per questo questo mio ricordo viene pubblicato in uno speciale dedicato a due grandi della storia dell’umanità di Velia/Elea, nel mediterraneo che bagna la mia terra di nascita e mi onora di essere considerato vostro conterraneo.

    E mi piace sottolineare che questa di oggi è l’ultima poesia di carattere storico. I versi passano in rassegna gli eventi più significativi della storia rivoluzione del mio e del vostro Cilento. E mi farebbe piacere se in questi giorni di freddo rigido, quando è consigliabile passare pomeriggi e sere accanto al fuoco, mamme e papà consigliassero ai figli, o le leggessero e commentassero essi stessi, pagine storiche delle nostre rivoluzioni per conquistare la libertà. La poesia che segue ne è un esempio.


    ZENONE ERA FILOSOFO R’ASCEA

    Zenone era filosofo r’Ascea

    a li tiempi ca se chiamava Elea.

    E se sceppào la lenga co le mmano

    E la iettàao mbacci a lo tiranno

    Ca la facette fa a piezzi a piezzi

    E la pisào co no pisaturo.

    Nearco se chiamava stu sgnore

    ca rette strazio a lo Ciliento antico.

    Ra tanno quanta gente inta sta terra

    ca pe la libertà s’è fatta accire!

    Lo Seiciento a Pellare alluccàro

    “Surgiti a stu paese bona gente!”

    E lo tiranno a forza ne cacciàro.

    A l’Acquavella, sempe a chiri tiempi,

    scannàro lo barone inta la chianca

    e l’appennèro com’a no crapetto.

    E lo Novantanove a Laurino,

    a Vallo, a Palinuro e a Cammarota

    pe l’uguaglianza e pe la fratellanza

    combattèro e morèro a centenara.

    E combattèro pure lo Vintotto

    appriesso a lo canonico De Luca

    lo Quarantotto nsiemi co Carducci,

    co Pisacane lo Cinquantasette.

    E lo sissanta, quanno Garibaldi

    Co la cammisa rossa ccà venette,

    facèro festa assenno ra le casi

    Seguèro li breanti a le muntagne

    E l’aiutàro contra li Savoia.

    Ièro a murì a lo fronte pe l’Italia

    lo Quinnici-Riciotto e lo Quaranta.

    Partèro r’emigranti a l’Argentina,

    pe Nova Iorca, pe Montevideo.

    Se ièro abbuscà pane a lo Brasile.

    Soffrèro fame e friddo a le barracche

    Pe le città tedesche senza core.

    E mò si giri inta li paisi

    pe camposanti, strate, chiesie e chiazze

    truovi nu munumento a ogni pizzo.

    E ogni tanto pe na ricorrenza

    le criature, assènno ra na scola,

    cantano ncoro, na bandiera mmano:

    “Evviva evviva lo Ciliento forte

    ca non tene paura re la morte!”

    Ma nu surdato mbacci nu ritratto

    Si potesse parlà re responnesse:

    “Ietti a lo fronte, ma me nce portàro,

    E che murietti a fa si a lo Ciliento

    nun cangia quasi nienti e si cummanna

    la stessa gente ra mill’anni e passa?

    Li figli re Nearco e li neputi

    cangiano nome ma so sempe chiri!”

    (tratta da Giuseppe Liuccio: CHESTA È LA TERRA MIA – Galzerano Editore)

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