Argomento recente dei consessi amministrativi cilentani è il dibattito sulle aree interne: cosa fare, come preservarle, come impedire lo spopolamento e, di conseguenza, la fine della loro storia. Un contributo alla riflessione può fornirlo anche una considerazione sulle caratteristiche del paesaggio nel lungo periodo: come si è evoluto, come ha realizzato un equilibrio nel quale è stato possibile forgiare la vicenda umana e far emergere valori che hanno amalgamato l’uomo che vi ha vissuto.

Mi è parso opportuno coinvolgere in questa riflessione il professore Vincenzo La Valva, primo presidente del Parco Nazionale del Cilento, con il quale ho collaborato per un quinquennio. Chi l’ha conosciuto e lo ha visto all’opera è rimasto colpito per la competenza dello scienziato e per la grande umanità. La sua sensibilità trasformava la conoscenza tecnica in una feconda testimonianza della convergente relazione tra uomo e paesaggio, da lui trattata con la finezza dell’intellettuale e l’ispirazione del poeta.
Si esaltava soprattutto quando aveva la possibilità di narrare il lungo viaggio dell’intricato e intrigante rapporto con le piante, fin da quando l’uomo ha scoperto che poteva trarre gratuito nutrimento dal mondo vegetale, trasformandolo in fonte rinnovabile di cibo, opportunità che ha consentito di raccogliere conoscenze e dati registrati nella memoria della famiglia umana.
Egli si è interessato del paesaggio mediterraneo, lago di culture nel quale si affacciano etnie, sistemi economici e civiltà, profilo estremamente variegato per la confluenza di tante storie. La Valva ha descritto la specificità delle vocazioni ambientali, ha evidenziato come, in una prospettiva di lungo periodo, siano risultate particolarmente importanti le relazioni dialettiche tra pianura e montagna, dati sui quali ha ricostruito le dinamiche che hanno contrassegnato i rapporti tra città e campagna.
Nel procedere all’individuazione delle modalità di valutazione dell’ambiente e delle sue variabili, egli ha riflettuto sulla relazione tra piante, uomo e paesaggio ed ha fornito una lettura storica dell’albero e del suo pervadente influsso sulla civiltà, elaborando le sue tesi sulla etnobotanica. Di sicuro interesse sono risultate le considerazioni di natura etnografica e socio-culturale sulle piante, da sempre considerate anche un legame tra uomo e cielo per i loro semi fecondatori della vita.
Vincenzo La Valva ha affrontato anche il delicato tema delle conseguenze del disturbo antropico. Egli non l’ha demonizzato, ma si è sforzato di comprenderne la portata per poter amalgamare la gestione moderna con gli usi tradizionali, convinto che la lunga simbiosi tra agricoltura e pastorizia ha prodotto una significativa diversità biologica, sollecitando la resistenza al disturbo che ha contribuito all’eterogeneità del paesaggio.
Una sapiente sinergia consente di utilizzare il territorio per l’allevamento, per l’attività forestale, per l’idrologia e per lo svago, salvaguardando la finalità primaria della conservazione dell’ambiente. Operare in tal senso valorizza la funzione del Parco, sovente percepito come un ente preminentemente burocratico. Invece La Valva lo ha sempre considerato promotore e animatore di cultura, azioni divenute preminenti soprattutto dopo che l’area si è vista assegnare dall’UNESCO l’ambito ma impegnativo riconoscimento di Patrimonio dell’umanità.
Da qui la responsabilità di custodirlo nel modo migliore, di salvaguardare e valorizzare un bene riattualizzandone i valori di fondo e mostrare che non è solo un’emergenza archeologica o ambientale, ma una realtà vitale per chi ha la pazienza e la sensibilità di rivolgerle delle domande.
La fortuna di aver goduto della sua amicizia nei cinque anni della sua presidenza del Parco, da lui gestita con fine determinazione facendo acquisire al territorio una rilevanza internazionale della quale gode tuttora, mi spinge a immaginare d’intessere il dialogo e ascoltare le sue risposte ad alcune domande sul contesto territoriale. Ho immaginato di rivolgere delle domande prendendo spunto da quanto egli stesso ha raccontato al convegno Elea: il divenire di una cultura, l’essere di un pensiero, organizzato dal Parco del Cilento nel 2000.

Caro Presidente, come è iniziata l’avventura che ha portato alla creazione di uno spazio che, lentamente, ha alterato la dimensione naturale trasformandola prima in modo equilibrato e poi con ritmi di pericolosa, a volte violenta accelerazione?
Immaginiamo il paesaggio nel quale operavano gli abitanti della Grotta della Cala o del Riparo del Poggio presso Camerota quando vi sbarcavano navi fenicie, oppure il nauseabondo fetore delle paludi nel Vallo di Diano prima delle bonifiche romane.
È un’avventura di conoscenza possibile ricorrendo all’esame dei pollini fossili come ha dimostrato Gambassini. Erano passati già migliaia di secoli e i discendenti di Lucy avevano imparato a rapportarsi col Popolo verde per risolvere i problemi di approvvigionamento alimentare.
Prateria, foresta, palude, deserto, piante, frutti, foglie, radici – preistorici supermercati – erano oggetto di osservazione a fini alimentari e officinali, persino per motivi rituali. Ancora oggi si cita la nostra papagna e l’uso che ne facevano le madri per calmare figli irrequieti perché, in mancanza di asili nido, li dovevano tenere a spalla quando lavoravano.
Senza inoltrarci nelle considerazioni religiose verso la Magna Mater e i rituali della Fertilità, come si evolve la conoscenza, favorita in particolare dalla scoperta e dall’uso delle graminacee?
Orzo, segale, miglio, mais, grano stimolarono l’osservazione delle spighe; si procedette a selezionarle tentando ibridazioni che determinarono enormi conseguenze per il positivo impatto demografico.

Mentre cresceva la popolazione, si compresero i vantaggi dell’impianto del giardino, decantato da tante epopee inneggianti alla Dea dell’Amore, Stella del Mattino e della Sera. Divenne il luogo dove si custodiva l’Albero della Vita.
Si rinsaldava così il legame tra piante e uomo con questa icona, perché ripara, nutre e dà vita nelle sue multiformi specificità: il frassino sacro ad Odino, la quercia sacra a Zeus, il numinoso pino di Aleppo per i Fenici, il cedro sacro per gli Ebrei.
Si moltiplicarono le leggende; sacerdoti e sciamani-giardinieri coltivavano piante miracolose capaci di guarire. Nella terra dei Faraoni si cominciarono a piantare orti botanici non solo per alberi sacri, erbe officinali e prodotti per l’alimentazione, ma anche per trarne fibre.
Così, foglie, fusti, radici o frutti consentivano di sopravvivere anche nelle aree più impervie: è il caso della manioca in Amazzonia, del cotone o della farina estratta da diverse specie di palme nel Borneo. Con le piante si cominciarono a costruire tetti, pareti, pavimenti, lance, frecce, corde, cerbottane, zappe, aratri, carri, barche, oggetti di uso quotidiano, strumenti musicali, papiri, libri, ornamenti, vestiti e statue per stimolare la passione per il bello e far fiorire la civiltà.
Nel periodo compreso tra 10.000 e 5.000 anni fa molte civiltà si affacciarono o si portarono verso le sponde del Mediterraneo. Quali le conseguenze?
Si moltiplicarono le città e, di conseguenza, il bisogno di legno, determinando una prima deforestazione di boschi sempreverdi dominati dal leccio, che cresceva florido lungo le regioni costiere. Pastori-agricoltori-boscaioli utilizzarono con perizia il fuoco per rimodellare il lussureggiante ambiente, dando inizio alla trasformazione del paesaggio, tuttora in atto.

La dinamica evolutiva della vegetazione conferiva alle coste un assetto semi-naturale soggetto a crescente antropizzazione, accentuata quando dalle nostre parti i monaci italo-greci cominciarono a operare nel VI secolo dell’era cristiana.
Che dire della presenza di navi orientali nei porti velini o sotto la Porta Marina a Poseidonia?
Evocare questi luoghi significa ammirare i dipinti delle tombe, odorare la rosa di Paestum, ammirare il granato. La Tomba del Tuffatore ripropone alla nostra attenzione tutti questi elementi: maestosi cedri, querce sacre, una palmetta, un frassino consacrato a Poseidone.
Il melograno, arbusto probabilmente dalla Persia, si è diffuso nel bacino del Mediterraneo e da sempre ha evocato la fecondità di una vita senza fine, motivo per cui i fiori sono dipinti sulle lastre delle tombe; il frutto, plasmato nell’argilla, si trasforma in piccoli oggetti votivi insieme ad altri che sembrano copia delle capsule di papavero, mentre la Donna Fiore, simbolo augurale di fertilità e abbondanza, conferma la perfetta interazione raggiunta tra uomo e natura; essa trova la sua ultima diramazione nella statua della Madonna del Granato.
Le città crescono e si espandono facendo aumentare il bisogno di spazio inteso sia come suolo fertile che come aree edificabili. Parallelamente aumenta il bisogno di legno sia per le case che per i mezzi di trasporto, in special modo per quelli marittimi.
L’umanità, che dalle origini aveva contato non più di una decina di milioni di individui, è ormai rapidamente cresciuta: dopo 8.000 anni di agricoltura, intorno all’anno zero, la terra contava più di 300 milioni di individui.
Approdati nella città, l’agricoltore e l’artigiano misero a frutto le loro conoscenze botaniche continuando osservazioni e sperimentazioni, per cui Plinio il Vecchio può scrivere con orgoglio nella sua Historia Naturalis che nemmeno le foreste più selvagge sono prive di piante officinali. Egli beneficiava del lavoro di Teofrasto, botanico che aveva proceduto alla classificazione del mondo vegetale.

Fu tutto un fiorire di scienziati, come Pedacio Dioscoride o Columella, che descrive la casa di città e la villa rustica con le sue strutture produttive. Il paesaggio agrario dove essi lavorano non era molto dissimile dall’attuale: uliveti terrazzati, messi dorate di giugno, orti, frutteti, agrumeti, greggi al pascolo lungo le coste ripetutamente incendiate (allora non per dolo, ma come gestione eco-compatibile).
Il fuoco impediva alla macchia mediterranea di chiudersi attorno ai pascoli e serviva a far rispuntare le foglie della Tagliamano, pascolo insostituibile per gli ovini dopo che erano state recise le lunghe foglie per intrecciare corde, attrezzi, giacigli.
Come considerare le propiziatrici magiche bevande ricavate da piante strane e misteriose quale la mandragora?
Il suo utilizzo, documentato nella letteratura medica, è tramandato dalle superstizioni popolari e dalla cultura magico-esoterica. Presso la corte dei Faraoni si coltivava negli orti botanici. Nel Vecchio Testamento è citata in Genesi 30,14; nel Cantico dei Cantici (7,11-14) si evocano le sue proprietà afrodisiache. Gli Ebrei la raffiguravano persino sulle monete.
Pitagora riteneva che le radici rendessero invisibili; l’infuso di vino e mandragora, detto Mandragorinos, era utilizzato per scopi medici e in alcune feste sacre. I Germani preparavano una bevanda di mandragora e vischio per proteggersi dai veleni e stimolare la fecondità.
La Scuola Medica Salernitana raccomandava di raccoglierla ponendosi sottovento e all’alba. Si riteneva che la potenza della pianta fosse maggiore se raccolta sotto una forca ai piedi dell’impiccato, bagnata da una goccia di sperma emessa dal condannato.

Nel Seicento l’Europa sperimenta un periodo di guerre, fame ed epidemie, situazione alla quale si cerca di porre riparo sfruttando al massimo il territorio.
Le colline si arroccano e fanno spazio ai terrazzamenti mentre s’infittisce la rete dei tratturi. Il suolo tende a impoverirsi dove la pendenza rende minacciosa l’acqua piovana per l’assenza della copertura vegetale primigenia; ruscelli e torrenti impetuosi rendono difficile governare il regime delle correnti.
Intanto generazioni di uomini continuano a concimare l’ulivo, il fico, farro e grano, scegliendo le colture più adatte al particolare microclima. Anche le greggi sono associate in questa economia primaria che combatte contro siccità e paludi, realizzando mirabili opere d’ingegneria.
Col passare dei decenni anche gli ulivi abbarbicati sui terrazzamenti delle colline sono spettatori di un ennesimo esodo dei contadini. La miseria rese appetibile l’incognita del viaggio per le Americhe o verso le fabbriche del Nord. Campi e terrazzamenti non più irrorati dal sudore dell’uomo fecero spazio a vecchie piante insieme ad altre, nuove.
Così mutava ancora una volta ambiente e clima per adattarsi a parametri evolutivi in rapido cambiamento; prendeva corpo un processo che con la speculazione edilizia e la cementificazione ha determinato un minaccioso inquinamento collegato all’effetto serra.
Oggi tanti spazi superstiti sono occupati da piante provenienti da altre terre, una ibridazione che colpisce il nostro immaginario collettivo.

Potrebbe brevemente descrivere questo fenomeno?
Mentre le città sembrano assediate dalla spinosa robinia di provenienza americana, che si segnala per la sua forza invasiva, i boschi cambiano composizione e il grigio-bruno dei tronchi e delle foglie morte invernali diventa più esotico per la crescente presenza di piante sempreverdi, in precedenza confinate in parchi e giardini. Così le palme, importate per abbellimento, risultano concorrenziali con specie indigene.
S’introduce una biodiversità prima inimmaginabile anche per l’aumento della temperatura e la diminuzione dei giorni di gelo. Intanto erbe esotiche infestanti attaccano campi e colture, oltre ai parassiti provenienti d’oltreoceano, mentre tendono a scomparire papaveri, gramigna e fiordaliso.
È stato calcolato che almeno 520 specie fra insetti e acari, 150 malattie delle piante e 113 piante infestanti sono diventate resistenti a molti dei pesticidi usati; inoltre, sono parecchie le malattie delle piante alle quali i vari fungicidi non riescono a porre rimedio.
Tutto ciò condiziona il processo evolutivo con ritmi sempre più accelerati. Mentre l’uso di diserbanti e i loro residui determinano una crescente resistenza nelle erbe infestanti.

Ma la natura non rimane inerme; lentamente ma tenacemente cerca di porre riparo ai danni prodotti dall’uomo stimolando la biodiversità. È il caso della bellissima Genista cilentina, neo-endemismo puntiforme scoperto da poco e noto solo presso Marina di Ascea e una stazione presso Cefalù in Sicilia. È una specie a rischio di estinzione perché l’habitat è oggetto di ripetuti e reiterati incendi, pur essendo all’interno del Parco.
Se è consentita un’ultima domanda: può fare la storia del platano nei pressi di Velia?
Nei dintorni della città di Parmenide resiste una delle ultime stazioni del Meridione d’Italia in cui vive, spontaneamente, il Platanus orientalis; bisogna andare nella Valle dei Templi ad Agrigento per trovarne un’altra. Entrambe sono vicine a città di origine greca. Il platano era sacro ai Greci, per cui è lecito ritenere che siano stati loro a portarlo nelle migrazioni; oggi è una pianta pienamente integrata nel nostro sistema naturale.

Non è parto di fantasia ritenere che gli allievi della Scuola eleatica fossero impegnati a parlare di scienza e filosofia passeggiando ai piedi di platani, la cui ombra generava nel loro animo serenità, rafforzata dalla saggezza che andavano acquisendo.
Ed oggi?
Oggi non esistono più i platani che, con olmi e pioppi, facevano ombra nelle piazze: i maestosi alberi di roverella, noce, gelso, che proteggevano le abitazioni nelle campagne, sono stati sostituiti da esotiche conifere dai diafani colori.
Questa mancanza di ombra e di frescura, che per millenni ha infuso pace e serenità, allontana sempre più dall’agorà e dalla pacata osservazione e discussione. Il nostro immaginario collettivo, la memoria, la tradizione popolare si vanno dissolvendo e rischiano di scomparire se le nuove generazioni, distratte dal vortice dei media e da una cultura preconfezionata, imposta e non partecipata, sprofondano nella pigrizia della ragione.

Forse una maggiore attenzione nei confronti del Parco potrebbe aiutare a recuperare le radici di un’identità da gustare nella concretezza di un quotidiano possibile in aree protette, da considerare non solo esperienza museale di conservazione, ma incontro con la natura per apprezzarne le risorse.
Lo scambio di conoscenze e di valori fa di questa insostituibile agorà una contemplazione feconda di bello che arricchisce veramente il patrimonio dell’umanità.



