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    I Viaggi del Poeta

    Peppino Iuliano e la coscienza collettiva di Tantilla

    Di LIUCCIO GIUSEPPINO19 Febbraio 20207 Min Lettura1 VisiteNessun commento
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    “L’idea che vuole fornire Tantilla chi legge è quella di poche composizioni raccolte più secondo un fuggevole moto dell’anima che secondo un progetto. Difficilmente è possibile trovare in così poche pagine un così potente concentrato di verità e di dolore, una impietosa radiografa poetica dello stato in cui siamo ridotti, in cui l’Irpinia è piombata”.È l’esordio amaro che caratterizza la testimonianza, a commento, della breve ma intesa riflessione dell’amico Franco Festa, che per ricerca di cultura e d’amore conosce, indaga la sua Irpinia, che per quotidianità di paziente e sapiente lavoro conosce più di tanti altri. Ed ha ragione quando sottolinea con forza le altre volte che il poeta di Nusco evidenzia il contrasto tra una natura splendida e benefica ed un destino umano ingrato ancora più marcato. Ora sembra accaduto qualcosa di più profondo. La sofferenza dell’uomo sembra essersi estesa alla natura intorno.

    Sono gli stessi concetti che nella prefazione un irpino illustre, il prof. Aldo Masullo, al cui acume critico affinai la mia formazione culturale e che apprezzai molto nei lontani anni dell’Università, quando godetti del privilegio di averlo come maestro colto e molto amato dai suoi allievi alla Federico II di Napoli. “Il poeta – scrive Masullo – ci fa sentire sulla pelle i laceranti graffi di una coscienza collettiva. Così ci torturano l’animo il tradimento subito, il sentirci vittime di malefica razza padrona, l’umiliante impotenza contro la sopraffazione invisibile che dura muta, funesta, fatale; il male della violenza infatti a lungo andare penetra nel corpo della vittima, la riduce all’indolenza della “servitù volontaria”. Questa, infine, è la malattia mortale degli uomini meridionali. Ciò nonostante i Tantilla di Iuliano attestano tuttavia la forza di un risentito amore che mantiene viva la contestazione, accesa la speranza”.

    Conosco Peppino Iuliano da 50 anni e passa e ci siamo formati insieme nell’amore del Sud e per il Sud, quello suo per l’Irpinia e quello mio per il Cilento e la Costa di Amalfi. Forse, anche per questo, tale e tanta è l’affinità per il comune sentire, che è quasi naturale usare i miei versi per commentare i suoi e la mia prosa per confrontarla alla sua, e proprio per questo cito alcuni miei versi per commentare i suoi e la stessa amarezza, lo steso dolore per commentare i suoi:

    “Vengo dal Sud / son nato nella terra dei briganti / bestemmiati / amati. / Sotto la sferza del padrone / ha riso/mio padre. / Nutrito di sudore / in grembo a mia madre / ho pianto alle bocche sguaiate dei pozzi / bevendo giustizia / nei sogni / gustando domani / migliori di ieri”. O come in quelli in cui rievoco il periodo eroico delle occupazioni delle terre incolte, nella Piana del Sele: “Ci saranno tutti / il giorno della verità / l’accetta disperata, / le trincee degli alberi, / l’urlo smorzato in gola / al poliziotto / la rosa di sangue al petto / del sindacalista, / i cocci di vetri al davanzale / del latifondista. / E ci sarà la terra, / creata da Dio. La terra, capo d’accusa”. O ancora quelli carichi di nostalgia d’amore del mio amico e maestro di vita e di poesia Salvatore Quasimodo di Lamento per il Sud: “Oh, il Sud è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria / è stanco di solitudine, stanco di catene, / è stanco nella sua bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi / che hanno bevuto il sangue del suo cuore”.

    Ci accomuna poi l’amore/devozione, che un critico di grande spessore, Paolo Saggese, qualifica come suoi eredi in una bella pubblicazione dal titolo Rocco e i suoi fratelli, dedicato alla poesia rivoluzionaria di Rocco Scotellaro, di cui noi, Iuliano ed io avremmo onorato la pesante eredità e che Iuliano citta nella poesia di apertura di Tantilla“Madre terra”, di cui io ricordo una breve ma intensa poesia, scritta in occasione del cinquantenario della morte, che si chiudeva con la drammaticamente vera constatazione che qui, da noi, nel Sud, a margine di storia “non è fatto giorno”.

    A chiusura di questa breve testimonianza mi piace riportare parte di una pagina del mio romanzo autobiografico Lettera alla Madre: “All’ombra del pergolato della minuscola casa di campagna mi sono sperso in ricordi da dormiveglia. Papà rassodava pali alla vigna. Tu alle prese con la cucina nel coccio di creta. All’aria aperta. I sapori avevano altri profumi in campagna con i grilli e le cicale a far da contrappunto al nostro riso per il frastuono del tappo di una bottiglia di lambiccato. Sapessi quanto pagherei per riassaporare le dolci atmosfere di quei giorni lontani! Oh le fughe a nascondino con Teresa a piluccare grappoli screziati da incipiente maturazione! Ma ne valeva la pena fare il percorso che ho fatto a rincorrere lavoro e successo per città d’Italia e d’Europa? Ho perduto l’innocenza aurorale dei miei campi e la felicità del vivere di poco. Ho rinunziato al concerto di grilli e di cicale e al pigolio degli uccelli a fuga dalla cova per l’assordante strombazzare dei clacson delle metropoli. Ho rifiutato, rinnegandoli, i profumi di finocchietto selvatico, della mentuccia, del rosmarino e del basilico e gli afrori di terra che brucia al sole le essenze mediterranee per intossicarmi agli scarichi di ossido di carbonio nel traffico della città. E mi ritrovo a piangere un paradiso perduto con la consapevolezza amara dell’uomo di studi, che ha imboccato una strada senza ritorno…

    Ho rimesso la poltrona al suo posto, Si ricoprirà di biancore da umido. Ho rinserrato la porta della minuscola casa. Dal pergolato folto di fogliame filtravano i raggi del sole rosso del tramonto ad accendere riso di bagliori alle pigne già gonfie di umori.

    Le cicale gareggiavano all’ultimo concerto. Ho registrato la morte nel cuore. Ho fatto la strada del ritorno da “Cretella” a marcia lenta. Con soste frequenti […] Mi sono fermato al Santuario della Madonna di Loreto E sono affiorate stagioni lontane di novena annunziata alle campagne dallo scampanio del campanile moresco, di fiera vociante di ressa di venditori ed acquirenti, di processioni a litania di canti, di bande a ritmo di marce a lacerare silenzi con frantumi d’eco tra campi, valloni e fiumare. Ho spiato dal portone d’ingresso, malfermo. Una brezza leggera è penetrata a volo d’angelo a carezza di statua di Madonna nera a prigionia di nicchia. Per la prima volta, dopo decenni, mi è esplosa dentro voglia di preghiera. Mi sono confuso, consustanziandomi, nel panismo della natura nella conflagrazione di cielo e campagna con la palla di fuoco del sole al tramonto nel mare di Agropoli. Lontano”.

    Ho registrato nella mia memoria storica le battaglie generose per il riscatto della mia terra povera. Le ho rivissute tutte anche nel nome di un meridionalismo nuovo perché la mia terra non continuasse a (sopra)vvivere, dibattendosi tra “osso e polpa”, come mi avevano insegnato i miei maestri di politica nel nome del socialismo, che proponeva con forza e determinazione giustizia distributiva tra uomini e territori. Ho rivisto i miei compagni di battaglie combattute e, purtroppo, perse. C’eri anche tu, mio caro amico e compagno di una vita, Peppino Iuliano. Ed ho registrato soltanto sconfitte, che rileggo con amarezza nei tuoi e nei mei versi. Ma non demordo e continuo a combattere, usando l’unico mezzo di cui dispongo. La parola. Sono sicuro che ti ritroverò ancora, amico mio, con la forza possente della parola a testimoniare con convinzione, a scrivere i tuoi versi, che fecondano vita ed accendono speranza/e di futuro.

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