Diario di viaggio e antiche amicizie tra i borghi del Cilento
Un po’ d’ansia per il percorso che non conosco, ma infine il viaggio mi calma: saranno le mille sfumature dei boschi o il cielo variabile davanti al lunotto. Qualche campanile antico emerge a tratti dal fitto delle macchie e mi annuncia prima del navigatore il prossimo paese e poi un altro e un altro.
Ero disperata, prima di partire, per non aver trovato una camera a Palinuro nel pieno di agosto, un appuntamento imperdibile per me, e poi una voce al telefono: «Ma sei scema? vieni a dormire da me, a Roccagloriosa. Quando hai finito mi chiami e ti vengo incontro».
Un gesto da amica, eppure non ci vediamo da decenni: paura di dar fastidio, di apparire opportunista. Ma tutto fugato, appena ci vediamo, perché la faccia è la stessa, il sorriso lo stesso, lei dice altrettanto di me e cominciamo a ridere per ogni sciocchezza, come facevamo trent’anni fa.
Una luce complice illumina i gradini di casa sua quando arriviamo, in un’atmosfera sospesa tra picchi di roccia sotto la luna di mezzanotte. Intuisco che è solo l’inizio, di una bellezza nascosta in cose senza tempo.
Alle 7 del mattino il caffè è pronto, insieme a un paio di scarpe sue: «Andiamo a camminare» ordina, a me e al cagnolino al seguito.

Una signora esce sulla strada, sorride a entrambe e posa su una pietra il cestino coi fagiolini dell’orto. Sfila una Rothmans slim dal pacchetto e me la offre, come mi conoscesse da sempre. Più che un orto, spiega riferendosi al pezzettino dietro di lei, quello era un angolo di spine e pietre, che ha sistemato lei. Piantine di ortaggi in ordine curato, entro una fila di gerani, un girasole che ci sovrasta. Mi porge l’accendino e mi mostra un ginocchio dolorante, alzando un po’ lo scamiciato, dicendo che a breve andrà ad operarsi al Nord, da suo figlio. «E come riesci a fare tutto questo?». «Ah, lei è un portento – commenta la mia amica – non sta mai senza far niente». «L’avete finita, ‘sta sigaretta?» chiede poi col tono severo di chi non fuma.
La salita è leggera, fino a una pianta di fico selvatica che fa da sentinella a uno spiazzo rotondo, sopraelevato alla strada. È un’aia col pavimento di pietre secolari, dove un tempo i contadini battevano il grano. La posizione è ideale, infatti, ci diciamo come fossimo esperte, perché la brezza qui portava via la pula senza fatica.
Una macchina rallenta, si ferma e un signore abbassa il finestrino: «Con o senza zucchero?» Torna poco dopo, con in mano tre caffè e una bustina, quando ci siamo appena sedute a una panchina. Silenzio e aria fine, di fronte allo scenario del golfo di Policastro, col profumo dei cornetti caldi. Qualche foglia ci cade sulla testa. Il cane ci guarda, prima noi e poi l’orizzonte.
«Andate alla Scala?» chiede il signore gentile che riparte per la sua giornata.
Ed ecco che subito dopo la curva appare un cartello UNESCO, che segnala “LA SCALA”, una necropoli datata tra il VI e il III secolo a.C. Una tomba di massi scuri a camera, con l’apertura centrale, si impone solitaria, con il pannello che descrive oggetti rinvenuti: un’anfora magnifica, monili d’oro che ornavano il corpo di una nobildonna. Più avanti c’è invece un ampio pianoro da cui emergono i perimetri di abitazioni dei Lucani, millenni addietro. Storia e archeologia che ignoravo.
Ma non finisce qui, promette la mia amica.
Mi porta verso un’altra strada, in direzione opposta. “L’Armo”, l’antica Patrizia, è una rocca dove quei popoli avevano abitato in seguito, e da lì sopra la visuale è a tutto tondo: catene di montagne, dal Cervati al Monte Bugheria, valle del Bussento e del Mingardo, il fiume che luccica, il golfo enorme di fronte.
Un orgoglio e una colpa, scoprire per caso questi borghi, gioielli del Parco del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni.
«Ma com’è che sei tornata in paese?» le chiedo mentre ci sediamo. «Ti sapevo insegnante in una scuola del Nord».
«Boh, non lo so neanch’io…» e ride.
Io invece credo di saperlo. Siamo simili.
«Mi raccomando, adesso devi venire tu a trovarmi al mio paese, ci conto».



