Una riflessione su cosa significhi oggi essere cittadini in un contesto dove chi si difende rischia più di chi aggredisce.
Viviamo un tempo difficile, in cui la criminalità non solo non arretra, ma cambia volto e aumenta sempre più. Diventa più spavalda, più organizzata, più brutale. I furti nelle case, nei negozi, nelle campagne e persino nelle strade delle nostre città non sono più semplici episodi di microcriminalità. Sono incursioni mirate, violente, spesso condotte da bande senza scrupoli che agiscono con la certezza dell’impunità. Non rubano soltanto oggetti o denaro: seminano paura, umiliano, feriscono. Il furto, oggi, ha sempre più spesso il volto dell’aggressione fisica, della violazione profonda dell’intimità familiare, della perdita del senso di protezione che dovrebbe essere garantito nei propri spazi più sacri come la propria abitazione. Non si tratta solo di perdere beni materiali, come qualcuno si ostina a definirli quando accade un furto: ma si tratta di perdere la serenità di una madre, la dignità di un padre, la sicurezza dei figli.
Ma la ferita più profonda, quella più dolorosa, la più difficile da rimarginare, è quella che arriva dopo: quando la vittima viene trattata come colpevole. Succede troppo spesso. Accade quando qualcuno reagisce per difendere la propria famiglia, i propri figli, la propria vita, e si ritrova trascinato in un’aula di tribunale, mentre chi ha violato la legge gode di garanzie e attenuanti. Gode, in vero, del “senso di impunità”. Ecco allora che la giustizia appare fredda, distante, meccanica, incapace di riconoscere l’istinto più naturale e profondo che esista: quello di proteggere ciò che si ama, quello di discernere due azioni all’apparenza di facile interpretazione: un delinquente e una vittima, un reato e chi lo subisce, una violazione dell’intimità abitativa e una reazione, logica, lecita e spontanea nel difendersi. È giusto domandarsi, con amarezza e rabbia: perché chi delinque sembra avere più diritti di chi subisce? Perché la legge sembra ignorare il contesto, la paura, la legittima esigenza di difendere sé stessi?
Non si vuole qui invocare il far west, non si chiede vendetta, non si desidera l’uccisione di nessuno, ma i cittadini sono esasperati, impauriti, preoccupati. E quindi si pretende equilibrio. Si reclama una giustizia che non sia cieca, ma che sappia distinguere, valutare, comprendere e debellare i rischi di insicurezza. Che non metta sullo stesso piano l’offesa violenta e la reazione disperata.
È inammissibile che un cittadino onesto, sorpreso nel cuore della notte, ma sempre più spesso anche di giorno, da criminali incappucciati, debba pensare prima alle conseguenze legali, se reagisce, che non alla propria incolumità e a quella della propria famiglia. È insostenibile che chi ha subito un’aggressione venga interrogato più duramente di chi l’ha compiuta. È assurdo che la difesa legittima venga ridotta a un tecnicismo giuridico, anziché essere riconosciuta come un diritto fondamentale. Oggi i cittadini chiedono uno Stato che torni a stare dalla parte dei giusti. Che ascolti le paure reali della gente. Che protegga i cittadini onesti, e non li lasci soli, abbandonati, giudicati per aver avuto il coraggio di dire “basta”. Serve una politica che guardi in faccia la realtà, che ascolti chi, ogni giorno, vive con l’ansia che la prossima sirena di un’ambulanza non suoni per qualcun altro, ma per sé. Occorre rimettere al centro il concetto di responsabilità, di protezione, di giustizia sociale. Serve ed occorre necessariamente la “proporzionalità del rischio” ovvero mettere il criminale nelle stesse condizioni della probabile vittima. Un criminale, o un ladro che sia, se a conoscenza che può correre egli stesso un pericolo elevato probabilmente ci penserà due volte, prima di agire nel suo contesto delinquenziale. Finché continueremo a chiedere alle vittime di abbassare lo sguardo, di non reagire, di subire in silenzio, e magari perfino a colpevolizzare chi tenta di difendersi, continueremo a cedere terreno a chi della violenza ne ha fatto una professione, la cui attività violenta aumenta giorno per giorno. Arriveremo al punto di non ritorno, o forse già ci siamo. E in quel momento, la sconfitta non sarà solo delle vittime; sarà la sconfitta di un intero Paese che ha smesso di proteggere i suoi cittadini.
Negli ultimi anni, la percezione della sicurezza è cambiata radicalmente. Non si tratta più solo di timori astratti, ma di episodi concreti, quotidiani, che segnano profondamente le nostre comunità.
Furti, rapine, aggressioni: reati sempre più frequenti e sempre più violenti ormai si manifestano in ogni dove. Ma ciò che allarma ancora di più è la sensazione crescente che, in questo scenario, le vittime siano lasciate sole, costrette a subire due volte, prima dai criminali, poi da un sistema che spesso non le tutela. Il vero pericolo è un altro, più silenzioso ma non meno preoccupante, ovvero la normalizzazione della paura, un grande rischio nel quale incappiamo prima o poi, se non avremo significative azioni di repressione e prevenzione. E questo è il segno di una resa culturale che non possiamo permetterci. Perché una società che smette di distinguere tra chi agisce nel rispetto delle regole e chi le infrange, è una società che scivola lentamente verso il baratro più profondo dell’ingiustizia e della totale devastazione. E, l’ingiustizia, lo sappiamo, genera rabbia. Una rabbia che rischia di diventare sfiducia nelle istituzioni, nel senso stesso dello Stato, nel valore della legge; da qui alla frattura sociale il passo è breve. E allora la domanda diventa urgente e fondamentale: quanto può reggere una democrazia che non sa proteggere i suoi cittadini? Quando la legge diventa percepita come nemica, o peggio ancora, come complice dell’ingiustizia, il legame tra cittadino e Stato si spezza. E si apre un vuoto pericoloso, che può essere riempito solo da rabbia, paura e sfiducia generalizzata. La sicurezza non è un privilegio, è un diritto. Un diritto che non può essere garantito solo a parole ma con scelte chiare, riforme concrete, leggi giuste.
Si necessita di una giustizia che protegga chi merita protezione. Serve uno Stato che ascolti, che non abbia paura di schierarsi: non tra destra e sinistra, tra “buonisti” e cattivi, ma tra chi vive nel rispetto delle regole e chi le calpesta ogni giorno. Oggi più che mai abbiamo bisogno di alzare lo sguardo, di ridare voce a chi l’ha persa, perché costretto a farlo per timore delle conseguenze, di dire con alto tono che difendersi non è un crimine, è dignità. E restituire dignità ai cittadini è un dovere morale, prima ancora che politico.