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    Percorso:Home»Attualità»Sono 10 i Piani Sociali di Zona in Campania
    Attualità

    Sono 10 i Piani Sociali di Zona in Campania

    Di Bartolo Scandizzo30 Ottobre 20177 Min Lettura0 VisiteNessun commento
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    Le risorse che la regione destina ai 10 Piani di zona della Campania sono una voce importante del bilancio pari a 279.585.293,00 euro.

    E non sono pochi i 53.583.115,30 di Euro impegnati per dare sollievo alle fasce sociali più deboli delle comunità in provincia di Salerno.

    L’area del Parco del Cilento, Diano e Alburni è divisa in 5 ambiti territoriali relativamente alla strutturazione dei piani di zona con i comuni capofila che sono Eboli (120.000 abitanti), Roccadaspide (57.076 abitanti), Vallo della Lucania (96.455 abitanti), Sala Consilina (68.342 abitanti) e Sapri (45.568 abitanti).

    Le risorse vengono assegnate in base al numero degli abitanti, all’estensione territoriale, alle dinamiche del lavoro e alle condizioni economiche con particolare riferimento al reddito pro-capite e alla povertà.

    Le risorse destinate agli ambiti territoriali sono gestite da una struttura tecnica con sede nel comune capofila che coordina gli interventi sul “campo”.

    Mentre, la responsabilità politica della gestione è in capo all’assemblea dei sindaci dei comuni che fanno parte di ciascun “patto”.

    L’impressione che si ha dall’esterno è quella che la montagna di risorse destinate e ripartite tra i vari settori d’intervento, partorisce quasi sempre il “topolino” delle mance da assegnare a pioggia per evitare di scontentare troppo sia la platea politica sia i soggetti destinatari degli interventi.

    C’è un altro aspetto da tenere presente e cioè che il numero degli abitanti complessivo dei 4 ambiti dell’area PNCDA non supera i 300.000 abitanti (tenendo conto che in quello di Eboli, il più numeroso, ci sono molti comuni fuori dal perimetro dell’area parco del Cilento, Diano e Alburni).

    Sono tanti i comuni, pochi gli abitanti e le problematiche sono tutte concentrate nella fascia di età che va dai 70 anni in su.

    La stragrande maggioranza di questi vivono da soli a causa dell’abbandono della terra dei padri dei loro figli perché andati a cercare fortuna in altri mondi che, per quanto vicini, sono comunque altro dal luogo di nascita.

    Considerato, poi, che le case di riposo “private” presenti sono destinate soprattutto a chi non è del tutto autosufficiente, restano a gestire i loro problemi in condizione di disagio tantissimi anziani che sono costretti a vivere con sofferenza la loro vita solitaria.

    La casa, il telefono, la Tv, la chiesa, la pensione, la piazza, il bar, il cimitero, la farmacia, il medico di base e l’orto sono il patrimonio sul quale contano per non sentire la loro vita già consumata. Ci sarebbe bisogno di sistema di protezione capace di monitorare in modo sistematico la gestione del quotidiano e l’emersione dei bisogni, anche solo temporanei, con la garanzia di interventi tempestivi che, oltre ad essere tesi alla risoluzione dei problemi, dovrebbero anche a rassicurare sul fatto che non si è soli ad affrontare le emergenze: il pronto intervento sociale è previsto dal Piano Sociale Regionale!

    Uno dei problemi che più assillano gli anziani è la sicurezza! Le informazioni captate alla Tv sono una valanga di notizie che fanno capolino nel salotto di casa: sono numerose le persone anziane che rifiutano la badante per paura di mettersi il “nemico” in casa.

    A fronte di questa problematiche, i Piani di zona sono organizzati in modo

    standardizzato (un Coordinatore dell’Ufficio di Piano; un esperto di programmazione sociale e sociosanitaria; un referente amministrativo contabile; un referente per la comunicazione e il monitoraggio; un esperto di rendicontazione e monitoraggio dei fondi europei) che prevedono personale altamente qualificato a livello centrale e personale che entra in contatto con le persone anziane bisognose, troppo spesso, pagate ad ore con compiti di pulizia e accompagnamento per la spesa o altre incombenze.

    Poco, troppo poco, viene destinato all’assistenza psicologica e tesa a far socializzare le tensioni per razionalizzare le paure e ridurre le ansie.

    Più volte nei documenti accompagnatori si parla di “rete assistenziale” che deve farsi carico di fornire servizi, valutare i bisogni e provvedere a organizzare gli accompagnamenti. Più che una “rete” si ha l’impressione di una “pesca” con la canna e la lenza in cima alla quale c’è un amo al quale troppo pochi possono “abboccare” nel mare dei bisogni diffusi. Lo è ancora di più nelle piccole comunità dove è poco strutturato il sistema amministrativo comunale: Sindaco, assessore, un vigile urbano e molte badanti “inquadrate” in una comunità con troppi bisogni e troppe poche risorse economiche e da questo dipende l’esiguità di quelle umane.

    La parcellizzazione delle risorse suddivise tra i comuni inclusi nei vari ambiti, se pur assegnate in base a criteri oggettivi concordati e previsti dal piano regionale, rendono palesemente inadeguati gli interventi nelle piccole realtà dove basterebbero due unità residenti in loco a gestire una efficace rete solidale coordinando i soggetti che a vario titolo operano già sul campo: badanti, familiari, medici di base, volontariato … con il comune capofila che ha responsabilità della gestione e dove, per forza di cose, hanno sede operativa le figure professionali previste per ogni Piano di zona.

    L’impressione che si ha dall’esterno è quella che a fare la parte del leone sono sempre le realtà più grandi dove, oggettivamente vengono dirottate le risorse calcolate in base al numero degli abitanti. Resta tutto da verificare, poi, se i servizi sono efficaci!

    C’è un altro aspetto da tener presente: le case di riposo per autosufficienti e non. Molte risorse sono destinate già a monte per l’integrazione delle rette degli anziani, con una pensione troppo bassa per coprire la spesa, trasferiti nelle strutture protette. Senza far di ogni “erba un fascio” per quelle poche (una mezza dozzina nella nostra area) che ho visitato mi sembrano al limite della soglia di accettabilità. Sarebbe importante per gli ospiti e per i loro familiari (quasi sempre impossibilitati a gestire in casa i congiunti) che si attivasse e, qualora già esistesse, di parte in causa attiva con visite periodiche e senza preavviso al fine di rendere effettivi i controlli: chi paga ha il diritto e il dovere di verificare che le risorse spese vengano impiegate per dare alla vita degli ospiti una dignità almeno pari, se non migliore, a quella vissuta a casa propria almeno sotto l’aspetto dei servizi.

    Altro aspetto che compete ai servizi sociali è il supporto alle famiglie con minori in difficoltà (sia portatori di disabilità fisiche si con problemi psichici o sociali).

    In questo caso l’attenzione dovrebbe essere ancora più alta, in quanto in gioco c’è la vita futura di giovani vite che, se prese in carico in modo serio e coordinato con altri soggetti istituzionali come la scuola, potrebbero svilupparsi su binari protetti accompagnandoli nella costruzione della loro personalità.

    La considerazione finale a questo scritto è frutto di anni passati a contatto con queste problematiche che non si possono affrontare con la “burocratica” attenzione al formale modo di offrire un servizio.

    Al contrario, bisogna prendere coscienza da parte degli operatori che il loro posto di lavoro è conseguenza del fatto che ci sono dei bisogni, non il contrario: le scuole esistono se sono utili alla formazione dei bambini, non per garantire il lavoro ai docenti; gli ospedali sono necessari e utili per curare le malattie, non per mantenere in piedi l’apparato burocratico sanitario; i servizi sociali sono finanziati per dare sollievo ai disagi sociali, non per garantire l’occupazione della pianta organica …

    Tutto il resto sono numeri e, se pur ogni tanto i conti tornano, non è certo che alla fine della storia ci sia un lieto fine …

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