"La fede dei bambini è una fede pratica, non è una fede teorica. Un bambino non puoi convincerlo con le parole. Si convince solo con i fatti"

​Don Carlo, un esempio di fede al servizio della comunità

Un sacerdote che abbraccia la pedagogia come strumento di comunanza

Attualità
Cilento mercoledì 04 aprile 2018
di Rosita Taurone
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Don Carlo insieme ai bambini del laboratorio “Impara il gusto del mondo” © Rosita Taurone

Incontriamo Don Carlo Ciocca, un sacerdote che si contraddistingue per la sua forte vocazione educativa e per la sua naturale propensione ad “entrare in campo” attraverso discipline pedagogiche trasversali.

Il suo lavoro cresce e si espande all’interno del centro educativo di Matinella, presso la parrocchia di San Gennaro, in cui presta servizio non solo come sacerdote adempiendo le tradizionali funzioni liturgiche ma anche come educatore militante. Lo troviamo, infatti, alle prese con un seminario gastronomico dedicato alla scoperta delle contaminazioni culinarie presenti nel mondo dedicato a bambini e ragazzi. Il progetto si chiama “Impara il gusto del mondo” e ha per obiettivo l’integrazione sociale attraverso il cibo. Non ha problemi ad indossare il grembiulino e ad impiastricciarsi le mani di farina.

Ci spiega che per adattarsi ai tempi bisogna stare e vivere tra la gente, tra le comunità, e là dove non c’è un’idea di comunità, occorre mettersi in condizioni di fondarla. Il lavoro collettivo sembra essere alla base della sua visione di fede.

“I bambini ci offrono un esempio concreto di cosa sia la fede. Posso dire per esperienza che i bambini vivono la fede in maniera pratica, attraverso i gesti e le relazioni. La famiglia oggi è il punto debole delle nostre società, quindi il nostro intento è quello di offrirle un valido supporto nel compito dell’educazione. Una volta al mese nel nostro centro si tiene una cena o un pranzo della comunità, a cui prendono parte circa un centinaio di persone. Gli ospiti sono bambini, ragazzi, che non sono solo del posto, ma che vengono anche un po più da lontano”.

Da quanti anni è sacerdote e in quali parrocchie è stato parroco?

Sono nato e cresciuto a Milano, approdato in Cilento nel lontano 1982. Il rito di ordinazione sacerdotale avviene nel 1988. Ho iniziato a Vallo della Lucania nella parrocchia di Angellara, poi sono stato sul monte Stella, a San Mango, Montecorice, a Serramezzana. Nel 1996 sono stato trasferito a Matinella. Ho studiato teologia in seminario a Vallo della Lucania. Terminati gli studi teologici mi sono laureato a Salerno in Pedagogia. La mia è una formazione pedagogica: recentemente abbiamo affinato il metodo di formazione Feuerstein, il quale costituisce l’anima del nostro centro educativo, che è nato dall’esigenza di dare una risposta ai problemi che riscontravamo nell’apprendimento dei ragazzi. Avevamo bisogno di strumenti che potessero dare loro una risposta, e quindi abbiamo pensato di adottare questo metodo che sviluppa il potenziale cognitivo di ciascun individuo in maniera appropriata. Il nostro impegno è concentrato sulle famiglie e i ragazzi dal punto di vista educativo. Abbiamo iniziato ad applicare questo metodo quando ancora non esisteva il nuovo centro, ed eravamo ospiti nella casa canonica di San Cesareo, dove è anche nata l’esperienza del doposcuola. Lì abbiamo iniziato a misurarci con le difficoltà di apprendimento che i ragazzi incontravano nello studio. Ci si confronta con la scuola, con gli enti scolastici, anche con quelli fuori comune, con Capaccio, ad esempio.

Il 2018 è l’anno del Sinodo dei Giovani. Cosa si può fare per avvicinare i giovani alla Chiesa?

Per la lunga esperienza di insegnante che ho maturato all’interno delle scuole, posso dire che per un contatto con il mondo giovanile bisogna essere presenti direttamente nei luoghi dove loro vivono. Reputo che la parrocchia non sia una modalità di approccio al mondo giovanile. Bisogna entrare nel mondo scolastico, quindi come adulti, insegnanti, sacerdoti o anche come laici che insegnano e che si coinvolgono nella vita. È possibile vivere il ruolo di sacerdote in un altro contesto. I giovani li vai a incontrare, attraverso una modalità di presenza che è stata abbandonata … Io stimo che siano questi gli strumenti con cui approcciare il mondo giovanile. Lo stare insieme è molto importante. I bambini vivono la fede a loro modo, la fede dei bambini è una fede pratica, non è una fede teorica. Un bambino non puoi convincerlo con le parole. Si convince solo con i fatti.

Quando nasce la dimensione spirituale ?

Da un incontro a scuola, alle superiori, negli anni ottanta, dopo un primo confronto con l’esperienza “Fede a scuola”, insieme al movimento di Comunione e Liberazione (CL). Erano i primi anni di pontificato di Giovanni Paolo II, e ho avuto il fascino per una fede, vissuta e testimoniata in maniera molto viva e appassionata, dentro la realtà, all’interno del contesto socioculturale del tempo, allora molto agitata. Una fede concreta. Da lì è nata la mia personale vocazione.

La fede ha subito della vacillazioni nel corso del tempo?

No, è stato un evolversi dentro delle circostanze che sono accadute. Ho sempre vissuto di più nell’ambito scolastico ed educativo. C’è sempre stata questa intuizione alla base ... Per come evolveva la società e anche il contesto generale, non solo in italia ma anche a livello mondiale, bisognava dare un’attenzione alla questione educativa. Questa è sempre stata la mia intuizione originaria e dopo è stato solamente il declinarsi di questa intuizione.

Vorrebbe parlarci del rapporto che il mondo religioso ha con la tecnologia?

La tecnologia è uno strumento, il problema risiede nel suo utilizzo e di che tipo d’uomo si interfaccia ad essa. È sempre un problema umano e quindi inevitabilmente legato alla visione dell’uomo. La tecnologia può facilitare la comunicazione e invece può anche essere usata come strumento di dominio. Questo ce lo insegnano i regimi, il nazionalsocialismo e anche in parte il comunismo. L’uso della propaganda come distruzione del pensiero. Penso ormai che la contemporaneità si pone a questo livello. Che tipo di uomo? Vale non solo per la comunicazione ma per tutta la tecnologia. La Chiesa usa i tecnologici mezzi di comunicazione come tutti. Anche il Papa dà molta attenzione a questo settore. Però il problema non credo sia questo, anzi credo sia quasi del tutto irrilevante; Noi non siamo fuori dal mondo, siamo dentro il mondo. Se il mondo evolve, evolviamo anche noi negli strumenti. La vera questione sta nel come li usi. Usiamo i computer e altri strumenti molto sofisticati, semplicemente noi li usiamo ad una certa maniera, gli altri lo fanno a loro modo.

Questo vale anche per la fede?

La fede non è uno strumento, è un’esperienza. Sto parlando di strumenti. La fede è una visione, un’esperienza del mondo, una visione dell’uomo. Risponde alla domanda di come concepisci l’uomo.

C’è un aspetto cruciale da cui partire per riflettere sul futuro delle nostre comunità? L’aspetto più problematico che lei evidenzierebbe?

Nel caso specifico del Cilento, bisogna uscire da questa impostazione clericale, parrocchiale per entrare dentro un’esperienza più comunitaria. La fede non è un problema dei parroci, è un problema dei cristiani. Il sacerdote non può essere guida se non c’è nessuno che lo segue, per questo bisogna coinvolgersi insieme, è sempre un'esperienza collettiva. Oggi, non è più il tempo dove la costruzione della comunità è affidata ai sacerdoti ma deve essere compito di tutti.

Ha un modello di comunità a cui fare riferimento, per esempio presente all'estero? Un’esperienza collettiva, spirituale, pedagogica di riferimento.

Mi affascina molto, per certi aspetti, come vive la fede l’ebraismo: questa concezione di popolo vissuto nella fede che è l’essere parte di una comunità, e quindi di una fede che è vissuta attraverso gesti non solo liturgici ma che è proprio una vita comunitaria presente nei vari ambiti della vita. L’aspetto rituale in Italia pesa un po’ troppo. La fede in Italia rimane molto legata all'aspetto liturgico, viene vissuta fondamentalmente come rituale, quindi come qualcosa che occupa un determinato spazio tempo, al di fuori del quale non c’è esperienza di vita comune, che è alla base della cristianità. Io credo che non possa ridursi solo a questo. Non va abbandonato, ma allo stesso tempo è impensabile che la nostra esperienza comunitaria si riduca a vivere bene solamente la messa della domenica. Per esempio la festa della Famiglia, costituisce uno dei momenti di apertura, un’esperienza molto interessante che si terrà il prossimo 14 aprile, una festa che è organizzata e nasce dalle famiglie. Il segno tangibile dell’inizio di una realtà di Chiesa che comincia a muoversi non solo al suo interno ma anche a relazionarsi con una comunità che comincia ad uscire dalla sua autoreferenzialità. Attraverso questa costruzione di rete che cresce anche come esperienza di consapevolezza. Un cambiamento, un cammino si sta muovendo, non sembra ancora, ma sotto sotto si muove.

Vede coinvolgimento e partecipazione da parte della collettività ai progetti del Centro?

Sì, assolutamente. C’è un coinvolgimento quando i laici sono interpellati e coinvolti con una proposta che è adeguata ai bisogni. Bisogna essere molto pragmatici ed essere in grado di sapersi mettere in discussione. Da questo punto di vista sono d’accordo con la logica del mercato, come quando un prodotto non va non è perché la gente non capisce, semplicemente vuol dire che il prodotto non è buono, oppure perché costa troppo rispetto al suo valore. La gente non è stupida.

Sente di essere un punto di riferimento per la sua comunità?

Sì, siamo un importante punto di cerniera tra la famiglia, la scuola e gli enti sanitari. Qua è un’altro pianeta, rispetto ad altre realtà locali. Questo potrebbe essere a mio avviso un importante input alla trasformazione … dare delle risposte e un aiuto ai genitori delle nostra provincia. Offriamo un servizio che nel resto della regione non c’è. L’unico centro Feuerstein presente al sud. Non ci sono altre realtà simili in Campania. Occorrono delle modalità più agili. L’anima del metodo è l’esperienza di mediatore. L’osservazione è fondamentale.





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