EPIGRAFE


Dovete adunque, – disse Bruno – maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de’ prieghi loro ci lasciò due suoi sofficienti discepoli, a’ quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l’aveano, fossero sempre presti” (Giovanni Boccaccio, “Decameron” Giornata VIII, Novella IX) Quando quel giorno, leggendo della “Cronaca” di quel tal frate di Parma che dei “poverelli” di Assisi vestì l’abito e che del tuo imperatore ebbe a scrivere che “leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben fatto, seppure di non alta statura e una volta lo vidi e per qualche tempo lo onorai”e di molti eventi del tuo tempo fu testimone, mi stupì la tua sapienza e quel tuo calcolo, maestro Scoto. Ti trovavi con il tal imperatore di cui così il chierico di Arezzo vergò il suo epitaffio “Se la probità, l’ingegno, la grazia di ogni virtù, la magnificenza, la nobiltà della stirpe potessero resistere alla morte allora non sarebbe morto Federico che qui giace!” quel giorno in quella sala di un suo palazzo, quando lui, che “curioso” di ogni sapere era, ti interrogò chiedendoti di conoscere “che distanza c’era da lì (dal pavimento di quella sala) al cielo” e tu saggio delle tue arti che furono, come era costume al tuo tempo, il trivio con il quadrivio, tosto ti apparecchiasti ai calcoli che una volta fatti, narra sempre il Nostro, devotamente gli rispondesti “quel che gli era deviso” ovvero della distanza. L’imperatore, che, nella sua “De arte venandi cum avibus”, di contro a molte “fole” che sugli uccelli allora volavano, dichiarava di volere verificare “le cose che sono, come sono” (ea, quae sunt, sicut sunt) non soddisfatto di quella tua prima risposta decise di volerne di nuovo verificarne l’esattezza. Sicchè, continua sempre il Nostro, mendandoti “in altri luoghi del regno, col pretesto di una passeggiata, ti tenne con sé per diversi mesi” mentre di contro ordinava ai suoi” architetti ovverosia fabbri legnaioli aveva in prima ordinato di abbassare la sala del palazzo, senza che alcuno se ne accorgesse. E cosi fu fatto”. E quando poi e non per caso venne di nuovo con te l’imperatore in quella sala a trovarsi “prendendo il discorso alla larga” ti domandò “se c’era da lì al cielo la medesima distanza che aveva detto l’altra volta” e tu, maestro, obbedendo al tuo signore con pazienza et più attenzione rifacesti il calcolo e quando il risultato si presentò diverso, pensoso rimanesti chè “o il cielo s’era levato su o la terra era riandata giù”, ma sicuro però della tua misura fugando ogni dubbio all’imperatore comunicasti il diverso risultato, ipotizzando che l’uno o l’altro si erano spostati. E tanto fu dell’imperatore lo stupore che mai più da quel giorno osò di tentarti e lodando il tuo sapere, approvò, esclamando che “sì tu eri un vero astrologo”. E tu, maestro, lo fosti e per davvero “astrologo”, ma non come oggi disprezzato, chè nulla del grande valore di quel titolo dice oggi il nostro tempo. L’astrologo allora non era né il millantatore di oroscopi o il misterioso artefice di “tabulae” astrali nè peggio ancora un impostore o un avventuriero senza meta ma uno oggi diremmo “scienziato”. Certamente non alla maniera nostra di come oggi lo intendiamo, ricordiamoci che siamo nel 1200 e molti ancora secoli dovranno passare prima che del gran Pisano ci giunga il “metodo”, ma a fronte delle conoscenze di allora e i suoi tanti libri e traduzioni lo dimostrano, fu anche un profondo conoscitore del cielo, delle stelle, dei moti dei pianeti, della terra e dell’universo in generale, tanto che alcune di quelle conoscenze ancora oggi durano. Un “sapiente” quindi certo di altri tempi di quando il sapere era uno e l’astrologo era filosofo, matematico, alchimista ed anche teologo, ed ancora non erano arrivate le diverse branche specializzate che del sapere “rotondo” del tuo tempo, maestro Scoto, ne faranno progresso e scempio. Nessuna differenza allora divideva il filosofo dal teologo o il medico dall’astrologo o dal matematico ma tutto il sapere concorreva allo stesso scopo di dare un “senso”, Qualcuno un “fine”, alla nostra vita. E la “tecnica” o meglio il dominio della tecnica ancora non aveva di sé con il mondo innervato e condizionato la nostra vita e tutto al tuo tempo, maestro, gridava contro la tecnica Heidegger, anche se imperava Dio aveva un “senso”. E se pure tra alambicchi, storte ed ampolle in ebollizioni tentavi alla “natura” di imporre i tuoi ma non i suoi di principi, e fu questo l’errore che il Pisano correggerà, anche se in verità già un grande Calabrese qualche secolo prima, con la sua opera “ De rerum natura iuxta propria principia” ci aveva avvisato, tu, maestro, di certo fosti un “scienziato” , e se a quella scienza che si appellerà poi la chimica, non fu la “pietra filosofale” il tuo dono, di certo come tanti del tuo tempo alla crescita dello scibile umano portasti nutrimento. Chè pur precipitandoti nell’Inferno con il tuo imperatore il divin Poeta come colui “che veramente / delle magiche frode seppe il gioco” mago o astrologo tu sol tu fosti. Anzi talvolta osservando il tuo acume della società le dinamiche partitiche ti facesti addirittura artefice, per taluni di profezie, per tal altri che il mondo realisticamente osservavano, di prevedere, come narra nella sua “Nova Cronica” il priore fiorentino del destino di una città. E fu Firenze la città di cui profetizzando che“non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e disimulando vive” ben vedesti quella disfatta che sarebbe arrivata e che il Divino marchiò come “il grande scempio che vide l’Arbia colorata in rosso”. E se pure non mancò anche il tuo compatriota di accrescere con i suoi racconti il potere delle tue arti magiche narrando di come con la tua bacchetta magica, dalle grotte di Salamanca facevi suonare le campane di Notre-Dame o far apparir e scomparire banchetti e simposi, pure la tua sapienza andò oltre e non fosti solo questo. Ed in verità molto ed alto fu il tuo cammino, quando dall’arabo, ma conoscevi anche il greco e l’ebraico, in latino traducendo dell’autore del “Libro della Guarigione” che “essenza” ben divise dall’”esistenza” alcuni suoi “commenti” e poi quelli di colui “che ‘l gran comento feo”, tu, maestro Scoto, all’Occidente consegnasti la luce di quell’Oriente, fecondando quel nuovo sapere, che “Scolastica” si appellerà e che opponendo poi Parigi ad Oxford, tanto diede alla crescita, alla cultura ed ai valori della nostra attuale società. E tra le tante opere che a sostegno del tuo pensiero ci donasti, ci piace per la sua sistematica et profonda didattica sapienziale, di ricordare primo fra tutti il tuo “Liber Introductorius”. Un libro nel quale affrontando non solo “le cause dell’agire divino, la disposizione del Cielo e della Terra, il ruolo degli animali e dell’uomo, l’attività degli angeli” che tu stesso, maestro, dichiarerai essere i temi fondamentali del tuo speculare, tenterai anche per l’astrologia, che tu ritenevi una vera e propria scienza, di mettere in relazione il mondo del “microcosmo” con quello del “macrocosmo” anticipando di molto l’unità di quella “copula mundi” che poi sarà la gloria di Pico e di Ficino. Un pensiero che avanzando ti porterà ad immaginare un universo, in cui ammiccando l’”Uno” del grande di Licopoli, lo concepirai uno, chiuso e della stessa sostanza, se pure per diversi “gradi o potenze” in discesa organizzato fino alla “terra” i cui “elementa” per essere dell’universo uno partecipe, potevano, non solo dagli angeli o dai demoni, ma anche dagli uomini, che tu, maestro consideravi la creatura più nobile di tutto l’universo, essere utilizzati, per la guarigione o la perdita della vita. Perché, ed è qui che si comprende il senso ed il potere della “magia”, essendo quegli “elementa” della terra, con le loro specifiche virtù, tutte nel corpo dell‘uomo comprese, si poteva appunto con l’arte della magia farne governo, contribuendo, se pure per vie acerbe, alla crescita di quell’ “arte medica”, che pur muovendosi ancora al tuo tempo tra “erbari, unguentari” et antiche formule di esoterica tradizione “ermetica”,di tanto arricchì con la medicina la nostra amata Scuola “ippocratica” di Salerno. Una scuola che tu più volte, maestro visitasti ed a cui il tuo grande imperatore diede le leggi che la fer grande. Una Scuola che durando ancora nella nostra attuale città di tutte le altre vinse la palma d’oro…a noi, che pur lontani, lasciando un “fiore” che ancora dura e che titolo porta di “Regola Sanitaria Salernitana”. Un fiore dai mille petali che raccolti nel prato di quel tuo tempo “lento” ancora oggi, quando ci ammonisce che “Se ti mancano i medici, siano per te medici queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta” ci consegna una regola “aurea” di vita che per la sua saggezza si rivela al nostro tempo capitale. Ed ora che la Scuola ci ha consegnato il suo tesoro, urge, maestro Scoto, di tornare ancora da te per narrare e dire di quel tempo felice di quando inseguendo del tuo imperatore la sua passione a te si rivolse per la preparazione di quel “trattato” che lo consegnerà alla storia di quell’arte nobile di cacciare con il falcone, il più esperto. E tu, maestro, fedele ed obbediente al tuo imperatore e per quel tuo provato amore per le traduzioni ancora una volta, lo avevi fatto già tante altre volte, ti apparecchiasti a per lui tradurre di quel saggio persiano il suo “De animalibus” e fu, con la diretta prova, la sua fonte. Amava infatti, Federico la caccia e quando “la moltitudine degli affari di Stato”, come lui stesso, in quella famosa lettera indirizzata ai “Dottori di Bologna scriveva “quel poco di tempo, che riusciamo a strappare alle occupazioni che ormai ci sono divenute familiari non sopportiamo di trascorrerlo nell’ozio” lo liberava da quegli impegni, oltre alla lettura che fu un’altra delle sue più solerte occupazioni volentieri si lasciava rapire e cavalcando, con al braccio il suo falcone, il suo bianco destriero con il suo mantello azzurro se andava per i lussureggianti boschi del suo regno ad inseguire la sua passione, che, come leggeremo, fu anche il suo tormento. Come quel giorno in Capitanata, che fu poi il suo ultimo, in cui sconsigliato dai suoi medici, per la notte che fu travagliata dai soliti, violenti dolori all’addome che furono anche il male di suo padre, volle lo stesso andare a caccia. E così, era testardo et spesso ostinato Federico all’ira pronto, come sempre aveva fatto anche quella mattina, levatosi il sole appena spuntata l’alba si alzò dal letto, si vestì ed uscì in corte dove richiamato al braccio il suo fedele falcone indossò il suo lungo mantello azzurro e con tutto il suo seguito tosto si lanciò alla caccia. Ah, come amava Federico la caccia e quella terra di Puglia di cui non mai disdegnò di essere chiamato il “puer” e di contro appellarla la “pupilla del mio occhio” e della qualenon nascondendo un certo compiacimento, soleva dire che se “Dio stesso avesse conosciuto prima la terra di Puglia, non avrebbe avuto motivo di creare il Paradiso” tanto era l’amore di Federico per questa terra. E così partirono e quando dopo aver tanto cavalcato, con le allodole alte nel cielo, cominciarono a volteggiare i primi uccelli e Federico si preparava ad ordinare al suo fedele falcone il primo volo, ecco improvviso un primo spasmo lo prese all’addome e poi ancora uno ed uno ancora, fino a quando insopportabili contorcendosi cade Federico dal cavallo a terra tramortito. Subito in aiuto accorsero immantinente i suoi medici prima fra tutti il fidato consigliere suo amico personale il Salernitano cui oggi, nella nostra città, al suo nome luce un ospedale, ma non tu, maestro Scoto, ah, come avresti voluto essere in quel momento al suo fianco, ma tu non potevi non perché non volevi ma perché più non c’eri. Chè compagno, in quell’anno del Signore 1235, di “colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico” in quella lontana ambasceria che in in terra di Inghilterra vi portò e che poi vide l’imperatore, con la sorella di quel re, celebrare il suo terzo matrimonio, più non tornasti. Chè, alta la tua profezia sulla sua morte, di certo avresti fatto di tutto per evitare che Federico venisse trasportato in quel suo “solacium” dal nome predestinato e chissà forse avresti salvato il tuo imperatore, ma non fu così, chè altro per te, maestro, la sorte aveva comandato. Durando infatti quella ambasceria alcune settimane e traversando quelle terre che un dì furono le tue, principiò il tuo cuore a “molcersi” e tu, maestro, soverchiato da tanta improvvisa nostalgia, decidesti allora di rimanere, chè “nulla” cantava il poeta “c’è di più dolce della terra natia” e più in terra d’Italia non tornasti. E non trascorso un anno, come accadrà alcuni anni dopo al tuo imperatore, anche tu, per quella pietra caduta dal cielo, in quella “diruta” cattedrale di Scozia, che per quell’urna di pietra che recita” Qui giaccio nella nuda pietra fallaci le mie profezie, dalla morte vinto ma non dalla gloria estinto” di te, con le tue ossa ancora oggi “porta significatione”, dovesti, oltre ogni profezia, accettare che nemmeno “la condotta più cauta e più innocente” può “nullu homo vivente” alla morte far “scappare”. E così venne il tuo imperatore trasportato d’urgenza in quel “solacium” dal nome di “fiore” e quando finalmente si rinvenne e chiese l’imperatore dove si trovasse e con stupore scoprì di trovarsi in un luogo che portava nome “Castelfiorentino”, chiamò subito intorno al suo letto i suoi “notari” e dopo aver dettato il suo testamento, chiama ancora il suo fedele arcivescovo di Palermo e gli chiede di somministrargli gli estremi misteri, perché oramai la sua ora era giunta. Era il giorno di Santa Lucia del mese di dicembre dell’anno del Signore 1250 e Federico giungendo le mani al petto, richiesto di vestire il saio dei penitenti addormentandosi si chiuse nel sonno della morte ed oltre il nostro Divin poeta “valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò… al premio che i desideri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò”. Moriva così, nel giorno più corto dell’anno, oltre ogni profezia colui che “tra i principi della terra fu il più grande, Federico, lo stupore del mondo, il miracoloso trasformatore”, un imperatore, un re, un mecenate, un uomo illuminato che tu, maestro Scoto, amasti e con la tua sapienza onorasti. E che io, anche per te che hai “allargata la via davanti ai miei passi” non facendo vacillare “i miei piedi” continuo nel mio remoto “scriptorium” ancora oggi ad amare ed onorare. Grazie, Maestro! Questo il mio epigramma: “E se Parigi con Toledo canta vanta Salerno la gloria di quell’arte che ti fece eterno. C’è poi di Pietro Lombardo un altro epigramma: “Scolastico, alchimista, medico, speziale et negromante non sfuggì a Boccaccio il tuo nome né al Divino l’indovino. Questo, maestro, nei giorni del marzo che spira primavera, l’amore, il mio tempo e la mia sera … il fiore che ti porto! Chiusa nelle prime ore antimeridiane del giorno di domenica 16 marzo dell’anno del Signore 2025. |