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    Attualità

    Melograno e ginestre – La natura ha un’anima. Le sacre acque di Paestum: Capodifiume

    Di Giuseppe Liuccio28 Maggio 20176 Min Lettura0 VisiteNessun commento
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    Me ne sono già occupato altre volte, ma torno volentieri sul tema per tre motivi fondamentali: 1) perché ho consapevolezza piena che un viaggio nella sacralità del territorio del Cilento non può fare a meno di una tappa a Capodifiume, che è un luogo carico di magia e di Grande Bellezza, ma anche di fascino e mistero e, comunque, legato alla ritualità per divinità che appartengono alla tradizione della religiosità dell’intero bacino del Mediterraneo; 2) perché mi consente di parlare del Melograno che è pianta sacra alla Madonna del Granato, che ha un santuario bellissimo sull’ultimo avamposto del Monte Calpazio ed incombe luminoso proprio su Capodifiune; 3) per accendere i riflettori dell’interesse su di un territorio che dovrebbe essere inserito a pieno titolo nell’agenda elettorale dei candidati a qualsiasi livello alle prossime elezioni amministrative di Capaccio-Paestum.

    “Nulla è più prezioso dell’acqua (ariston men udor“) cantava Pindaro nella prima olimpiade. E dovettero pensarlo anche i nostri antenati greci, quando, sulle rotte del Mediterraneo, approdarono nella pianura e vi fondarono Poseidonia. Il Sele, a nord, la divideva dagli Etruschi, che governavano città potenti e prosperose: Picentia sui declivi dei monti e Marcinna sul mare. Il Solofrone a sud, il cui corso pacioso dalla portata limitata, consentiva facili trasmigrazioni/espansioni verso i promontori di Agropoli e Tresino. Quei fiumi hanno acceso la fantasia dei poeti e dei viaggiatori colti. E sarebbe una bella ricerca, non priva di sorprese, la letterarietà dei due corsi d’acqua, che hanno scandito storia e vita del territorio, raccogliendole alle radici dei monti ed arricchendole nei percorsi zigzaganti prima di miscelarle nei vortici spumeggianti alle foci: ma la pianura era ed è ferita da altri fiumi, brevi di corso e di bacino, ma preziosi per la fecondità dei campi e, oltretutto, carichi di storia in grado di accendere i riflettori sulla sacralità delle nostre origini: Capodifiume, innanzitutto. Sgorga alle radici del Calpazio, da cui una Madonna veglia e protegge uomini e campagne, reiterando nella ritualità cristiana il culto che fu di Era e di Persefone, dee di tenebre e luce, di morte e resurrezione e, soprattutto, di fecondità nell’alternarsi delle stagioni. Il Salso ne arricchisce la portata con quel salto di allegra e vociante libertà, che esplode all’argento della luce dopo un percorso di prigionia nel ventre oscuro e misterioso della terra.

    Ci sono stato di recente. Nel dolce tramonto primaverile erano ebbre di luce le anatre allo scialo libero dell’acqua nell’ansa del fiume, che fu santuario alla dea dei frutti. Il Salso gorgogliava sempre e rifrangeva gocce di diamanti nel breve salto ad “impetrar la trabe” con il suo carico di sali raccolti nel ventre  della montagna: E m’era sottofondo allegro di memorie ad evocare e ritmare la storia che qui ha radici antiche. Nella assorta pace del tramonto, ai margini del fiume, ho riscoperto ed esaltato l’anima di fauno della mia terra con negli occhi il fasto della primavera che già ingioiellava i declivi accidentati della scalata al santuario della Madonna del Granato, dove profumavano vanitose dell’oro effimero dei fiori e della intensità forte e sensuale dei profumi le ginestre e mi  tornava alla mente un verso di Giosuè Carducci, bellissimo nella sua essenzialità: ”…E molli d’auree ginestre si paravano i colli”.

    Poteva essere un parco fluviale pubblico di straordinaria valenza storica ed ambientale. E’ diventato una bella e gradevole struttura dell’accoglienza privata per la gioia degli amanti del relax e dei cultori della buona cucina. Resta, comunque, una risorsa da immettere nel circuito fecondo della fruizione turistica per una contrada che per quelli della mia generazione fu il primo saluto di vita e di commercio della pianura per quanti scendevano dalle colline dell’interno. E lo sarebbe ancora di più se la vecchia cava dismessa, che dà il nome alla contrada (Petrale) e che, ferita bianca nel verde della collina, canta epopea di sudori e fatica, fosse utilizzata per “un progetto di rinaturalizzazione” con “melograneto” a sbalzo di terrazzamenti, punto di accoglienza con chiosco a degustazione dei derivati dei frutti e bacheche/legenda a recupero di storia e di arte nella prismaticità delle sue espressioni (letteratura, pittura, artigianato), di una pianta, che è sacra al territorio. Ne ho parlato e scritto a più riprese nel corso degli anni. Ma vale la pena di ricordare ancora una volta, che la Madonna del Granato costituisce la trasmigrazione del culto della fecondità pagana di Era, Persefone, Cerere e Demetra nella Madonna cristiana Il melograno, poi, con la bellezza dei fiori rossi ai principi di giugno ed i frutti, che, maturi ad ottobre, si spaccano con il sorriso invitante dei chicchi che erompono dalla scorza e con colore rosso bianchiccio alludono al sangue ciclico del mestruo, il melograno, dicevo, esalta la fecondità/procreazione di vita della donna. I fedeli del territorio si recano in pellegrinaggio sul santuario due volte all’anno: il 2 maggio, giorno dei “florealia” ed il 15 agosto a conclusione della stagione dei raccolti, a simboleggiare, appunto, che fiori di primavera e frutti d’estate assicurano, celebrano ed esaltano la continuità della specie di cui la Madonna Cristiana, come già le dee pagane, si fa Protettrice e Garante.

    Il sole, che, alla distanza, è conflagrazione di cielo e mare, mi gonfia il cuore di emozioni da poesia ed accende utopia a porte di futuro, sempre che qualche candidato, a qualsiasi livello, accenda i riflettori dell’interesse sulle belle pagine della nostra storia. Sulla base dell’esperienza del passato temo, purtroppo, che non succederà, ma io continuo imperterrito ad essere fecondato dall‘ottimismo della speranza, a costo di registrare un’altra cocente delusione, mentre m’incanto alla festa di una pianta di melograno carico di fiori rossi e mi torna alla mente un’altra bella e commovente poesia di Giosuè Carducci scritta per la morte prematura del figlioletto Dante: “PIANTO ANTICO”, che quasi tutti noi abbiamo imparato a memoria nei primi anni di scuola: “L’albero a cui tendevi/ la pargoletta mano/il verde melograno/ dai bei vermigli fior/ rinverdì tutto or ora/ e giugno lo ristora/ dai bei vermigli fior”. Ed, intanto, nel prato  partecipano alla festa di colori ed odori le margherite di campo ed i garofani dei poeti che arabescano i fossati. E la natura che trionfa con il suo canto alla Vita e alla Bellezza.

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