Immagina di salire lungo un crinale ammantato di querce.
Davanti a te si apre un pianoro sospeso, balcone naturale da cui l’occhio spazia dai Monti Alburni alle gole scavate dal torrente Sammaro.
È qui, a quasi novecento metri d’altitudine, che il tempo conserva ancora l’eco di un popolo antico: gli Enotri, “la gente del vino”, custodi di un paesaggio modellato con pazienza.
I loro villaggi, compatti nuclei di abitazioni in materiali locali, punteggiavano le terrazze che sovrastano i valichi — Broglio di Trebisacce sullo Ionio, il Timpone della Motta o Monte Pruno sopra Roscigno — sempre in equilibrio fra la sicurezza dell’altezza e la vicinanza all’acqua.
Da queste alture gli antichi pastori sorvegliavano le greggi, le madri tessevano la lana e nei granai si custodivano i raccolti, mentre i mercanti percorrevano silenziosi le antiche vie che collegavano la costa tirrenica all’entroterra lucano, portando pece, legname, ambra, merci preziose e, soprattutto, idee.
Ogni dimora ruotava intorno a un braciere sempre acceso.
Il fuoco scaldava, cuoceva l’argilla, fondeva piccole lame di bronzo e illuminava le sere in cui gli anziani e i guerrieri intrecciavano racconti di lupi, tempeste e spiriti dei campi.
Il vino — che diede all’intera Italia meridionale il nome di Oinōtría — nasceva da pergole basse fra muretti a secco.
Analisi di pollini in villaggi enotri sepolti rivelano vitigni selezionati ben prima dell’arrivo dei coloni greci: un rosso denso, addolcito con miele e rosmarino, che suggellava alleanze e riti di passaggio.
Mentre i centri costieri assorbivano presto le novità portate dai primi coloni greci dell’isola di Eubea (l’odierna Evia), Monte Pruno rimase un crocevia aspro e prezioso.
Il suo centro fortificato, protetto da mura poligonali larghe cinque metri erette nel IV secolo a.C., dominava pascoli brulli e boschi ricchi di selvaggina.
Nel cuore dello sperone roccioso gli archeologi hanno portato alla luce una sepoltura principesca, enotria e lucana, con situle cesellate, collane d’ambra e pugnali lucenti: segni di un’aristocrazia guerriera, abile tanto nel baratto quanto nel comando.
Nelle fornaci si cuocevano giare di terracotta per conservare cereali o vino, affiancate da minuscoli vasi forse destinati a riti.
Le decorazioni geometriche indigene si intrecciavano con motivi d’oltremare, creando una ceramica “ibrida” che racconta un dialogo culturale ininterrotto: gli Enotri accoglievano le novità senza perdere la propria identità.
Nei momenti chiave dell’anno agricolo la comunità vi versava vino sulla terra, bruciava spighe appena mietute e deponeva figurine di bronzo con capre gravide o vitellini.
Intorno ai fuochi sacri si invocavano pioggia e fertilità; le prime cagliate di latte o un ciuffo di lana venivano offerte in segno di gratitudine.
Gesti semplici, ripetuti stagione dopo stagione, che intrecciavano la sopravvivenza del villaggio ai cicli della natura e rinsaldavano i legami fra clan.
La vita quotidiana scorreva fra zuppe di cereali profumate alle erbe di montagna, formaggi affumicati, cacciagione arrostita e vino diluito con acqua.
Il pascolo mobile e la cura dei castagneti proteggevano il suolo e assicuravano scorte contro la carestia: una forma di sostenibilità in anticipo sui tempi.
Oggi antichi sentieri guidano il visitatore tra le rovine.
Il lascito di quei villaggi è silenzioso ma potente: dimostra che si può coltivare un’economia piccola, diversificata e innovativa senza tradire il paesaggio — una lezione preziosa per le zone interne del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, terre che ancora oggi cercano futuro senza perdere identità.
Soffermati un istante sul ciglio del pianoro.
Ascolta lo scricchiolio di un focolare, il ronzio dei telai e il tintinnio dell’ambra lavorata.
Nei silenzi di Monte Pruno — come in ogni villaggio enotrio — risuona la voce di uomini e donne che trasformarono l’isolamento in ricchezza e la frontiera in ponte.
In quel sussurro di storia c’è un invito: riconoscere la dignità delle piccole comunità e custodire il loro paesaggio, perché è da lì che nasce ogni futuro duraturo.