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    Percorso:Home»Rubriche»La Scvola di Atene»Si vanti pure e gridi alto di Myes la magnifica città di Poseidonia il nome!
    La Scvola di Atene

    Si vanti pure e gridi alto di Myes la magnifica città di Poseidonia il nome!

    Di Gaetano Ricco20 Novembre 202312 Min Lettura3 VisiteNessun commento
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    A Myes (Poseidonia V sec. a.C.) figlio della città di Poseidonia che dei duecentodiciotto di Giamblico trasse il nome e fu quinto …

    il mio saluto!

    EPIGRAFE

    Nel novero complessivo dei pitagorici molti, come è ovvio, sono rimasti sconosciuti e anonimi, ma di quelli che si conoscono, i nomi sono i seguenti… di Poseidonia: Atamante, Simo, Prosseno, Cranao, Myes, Batilao, Fedone.

                                                                               (Giamblico “Vita Pitagorica”)

                                                  

    Ed anche per te, maestro Myes, figlio della città di Poseidonia che dei duecentodiciotto di Giamblico traesti il nome e fosti di Poseidonia il quinto, canterò il mio canto e della tua perduta opera “epitomatore” di contro si farà di dubbi lievito. Non ancora alla nobile tua città di Poseidonia, aveva, dalle dita rosa, l’aurora aperte le sue porte, chè sempre il Maestro (Pitagora): “esortava a porre attenzione a due momenti: a quello che precede il sonno, e quello del levarsi, subito dopo essersi destati. È infatti buona cosa, af­fermava, dedicarsi in entrambe le occasioni all’esa­me delle azioni compiute o che si ha in animo di compiere, perché ciascuno possa dare un rendicon­to delle azioni passate e fare una previsione del fu­turo. Prima di abbandonarsi al sonno ciascuno do­veva cantare questi versi: non accogliere nei languidi occhi il sonno prima di avere tre volte esaminato ciascuno degli atti lungo il giorno compiuti e, prima di levarsi, questi altri: dapprima, quando ti desti al sorgere del dolce sole, esa­mina bene cosa farai durante il giorno”, che tu raccogliendo della Scuola che in fuga di Crotone ebbe le sue origini, il costume, non mai a terra posando per primo il piede sinistro, così prima che il tuo dio sorgesse ti levavi. E vestendoti della pura e candida veste di lino, chè mai, alle vostre regole, “disapprovavate” infatti la caccia, niun animale doveva per coprirvi essere ucciso, dalla tua casa sulla via di Asclepio sita non lontana dal dio, uscivi e primo fra tutti, verso l’altare che ad oriente del suo tempio si ergeva, muovevi i tuoi passi per andare a salutare il figlio di colui che addensa e prepara le nubi alla tempesta e con la sua luce illumina il mondo.

    Era di tanti voti il quotidiano rito antico dei pitagorici, dovere di ogni confratello volto a ringraziare colui che levandosi sulle acque azzurre del padre Oceano e “muovendo del cielo al di sopra” con il suo carro d’oro donava ai mortali ed a tutti gli animali che la terra popolano il nuovo giorno. E per te, maestro, cui già di contro chi piatta la diceva la terra era tonda e nell’universo fissa, e tutti i giorni  dal disco di fuoco “cento volte più esteso della terra” che il tuo dio guidava era illuminata e per il suo eterno moto “ora in una casa ora in un’altra dello zodiaco producevano le quattro mutazioni delle stagioni e per questo passare dall’una all’altra è possi­bile la generazione dei frutti e delle altre nascite che danno vita agli animali” nulla doveva mancare, chè approvando il Maestro il principio che “nell’universo, come nella vita, nelle città e nella natura in genere, che ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene dopo” più di ogni altro dio egli doveva essere celebrato ed onorato. E tu da quando ancora giovane bussasti alla porta di quella sua scuola e richiesto della “prova”, di cui narra Giamblico ogni aspirante dovesse piegarsi, “provvisto di buoni costumi” e “in grado di tacere e di tenere per sé dell’apprendimento il corso e gli insegnamenti ricevuti” fosti ammesso e in silenzio senza mai parlare superati i cinque anni in ascolto, “adatto ai beni della sua sapienza” finalmente si alzò la tenda e varcando la soglia, che dal Maestro ti teneva separato, venisti alla sua presenza e non più discepolo ma del Maestro “amico” ti assidesti con lui alla sua mensa, sempre da allora, ogni mattina, consumavi quel rito. E così giunto alla fronte orientale di quel tempio, che ancora oggi vanta la gloria più grande della tua città, in piedi davanti all’altare levando le braccia al cielo solennemente ti apprestavi a  salutare il tuo Dio. E mentre dall’altare, bruciando, esalavano delle offerte i profumi, e primi raggi indoravano l’oriente nascente, accompagnandoti con il suono della lira levavi la tua voce e alla maniera interpolata di colui che per il padre Oceano narrò di Odisseo i travagli, così dolcemente, pregando, cantavi: Salute, o figlio di Zeus splendente e instancabile che simile agli dei immortali dai luce ai mortali guidando i tuoi cavalli per il cielo, salute a te. I tuoi occhi accendono di sotto all’elmo d’oro i tuoi raggi infuocati illuminando come barbagli la terra. Brillano i tuoi lunghi capelli d’oro e rilucono le tempie lucenti dei tuoi cavalli e avanza il timone d’oro del tuo carro al centro del cielo. Tu, che del giorno sei il Signore, guida lungo il cielo il tuo carro e sii alla nostra vita benigno e premia con le tue mille collane d’oro il mio canto per te. Così, signore, ti saluto e ti invoco e per te intonerò un nuovo canto”. E così mentre diradava con le sue le ultime ombre la notte e sempre più in alto saliva il carro nel cielo, tu, maestro Myes, come i tuoi voti auguravano e il costume del Maestro tramandava, ti apparecchiavi con quella prima “solitaria” passeggiata, a principiare la giornata. Scrive sempre, nella “Vita Pitagorica” il nostro Giamblico: “di mattina fa­cevano delle passeggiate solitarie in luoghi dove regnas­sero solitudine e adeguata tranquillità, e fossero templi e boschetti e quant’altro poteva allietare il cuore… considerava­no fonte di turbamento mescolarsi alla folla appena alzati…dopo la passeggiata mattutina, continua,  si riunivano tra loro, per lo più nei santuari, o, altrimenti, in luoghi di analoga natura, e dedicavano questo tempo all’insegna­mento, all’apprendimento e all’emendazione del caratte­re. Dopo di che si davano alla cura del proprio fisi­co… a pranzo consumavano pane, miele o miele misto a cera, e non bevevano vino per tutta la giornata. Dedicavano il dopo pranzo all’am­ministrazione degli affari pubblici di natura interna o estera e…quando si andava facendo pomeriggio inoltra­to, tornavano a passeggiare, non, come di mattina, da soli, ma in gruppi di due o tre”. Quando poi, compiuto il suo giro, lentamente il dio del giorno cedeva per tuffarsi nelle onde occidentali del padre Oceano, lasciando il passo alla sera, allora, continua il Nostro, tu, maestro Myes, come i tuoi fratelli  “prendeva­te il bagno, e quindi vi recavate al banchetto comune, cui non era lecito prendessero parte più di dieci persone, e … dopo que­sto banchetto offrivate nuovamente libagioni; poi aveva luogo la lettura. Era costume che leggesse il più giovane, e che il più anziano stabilisse cosa e come si dovesse leg­gere. Quando poi si accingevano ad andar via il coppiere vi ver­sava del vino per una ultima libagione, e dopo, il più anzia­no vi dava per la notte i precetti e… una volta pronunciate queste parole, ognuno faceva ritorno a casa” e di “ciò che giorno per giorno alla maggior parte di voi veniva insegnato era… mezzo di elevazione alla vostra vita” e tu, amando in special modo le ore “all’insegna­mento, all’apprendimento e all’emendazione del caratte­re” dedicate, di tutto facesti tesoro. Ore che per te, che dei “due ordini… dei pitagorei e dei pitagoristi” in cui soleva la scuola distinguere i suoi discepoli, tosto non tra i “pitagoristi”, cui il Nostro scrive essere assegnato solo e solamente l’osservanza e la custodia dei “detti” del Maestro senza che mai “si accompagna una dimostrazione o una giustificazione razionale”, ma tra i “pitagorei” ti sedesti. E tra questi non tra gli“acusmatici”, cui il Maestro prescrisse “che si riunissero insieme per lo studio in comune, pur mantenendo la proprietà privata dei be­ni”, ma come “matematico” cui di contro “adatto” a  filosofare “alla stregua di insegnamenti divini” e nella “comunanza dei beni e la convivenza perpetua”, il Maestro affidava il suo sapere. E come già Batilao con Simo che alla musica diede lustro, fece a Poseidonia avanzare la medicina, così tu, maestro Myes, in cura del principio che “nell’universo, come nella vita, nelle città e nella natura in genere, che ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene dopo ed il sorgere del sole è venerato più del tramonto, l’aurora più della sera, l’inizio più che la fine e la generazione più della dissoluzione” donasti il tuo genio alla storia ed alla narrazione delle “fondazione delle città” desti lustro. E se le fonti poi, come già per Simo furon avare e spesso contrarie, e penso al falso monumento votivo di Arimnesto a Delfi, nulla dicono e di Ippia il reggino invece ti fanno “epitomatore”, pure sono tanti i dubbi che il tuo autore solleva. Agli inizi del novecento quando, causa tanto si presentava la “quaestio” spinosa, ci fu, infatti, un noto filologo e storico dell’antichità greca che propose addirittura “di vedere in Ippia una sorta di autore fantasma” si tornò con forza a parlare di te, maestro Myes, non più come “epitomatore” ma “autore”. L’ipotesi però, come era immaginabile, cadendo su una lunga scia di studi consolidati sollevò moltissime perplessità ma anche qualche consenso, cui io, e mi perdoneranno i miei venticinque meno uno lettori se oso, ma mi piace di fare la mia parte.

    Una parte picciola fatta di misura e di brevi considerazioni che forse nulla aggiungerà alla accademica magnificenza dei maestri filologi ma che a mio avviso potrebbe stare nell’avarizia e talvolta nella “contraddizione” delle stessi fonti. Racconta Eliano nel “De natura animalium”, riportando un frammento di Ippia, che una donna “afflitta da un verme solitario, venne ad Epidauro per farsi curare. Durante il sonno gli inservienti del dio le staccarono la testa per estrarle il verme, ma poi non furono più in grado di riposizionarla; fu solo il successivo intervento del dio a sanare la situazione” lasciando intendere di Ippia una sua appartenenza ad una setta “pitagorica”. Il dio, infatti, che guarisce la donna attaccandogli la testa, come si intuisce per altre prove, non poteva che essere il taumaturgico Apollo l’Iperboreo, di cui Giamblico narra : “Abaris…depositario della più profonda sapienza religiosa. Stava tornando dalla Grecia nella sua terra, per consacrare nel santuario iper­boreo del dio l’oro che aveva raccolto. Ora, passando per l’Italia, vide Pitagora, e lo trovò in tutto somigliante al dio di cui era sacerdote. Era convinto che Pitagora, lungi dall’essere un uomo simile al dio, fosse in realtà il dio stesso e…così restituì a Pitagora la freccia e, viaggiando a cavallo della freccia attraversava anche i luoghi inaccessibili e… compiva riti purificatori, allontanava pestilenze e stornava i venti dalle città che gli chiedevano di venire in loro soccorso” guarendo con la sua arte medica tutti i mali. E dunque se per la storia della donna guarita, non possiamo non pensare che Ippia fosse un pitagorico, perché ed questa la domanda che il dubbio alimenta“nel novero complessivo dei pitagorici molti, come è ovvio, son rimasti sconosciuti e anonimi, ma di quelli che si conoscono, i nomi sono i seguenti” nel novero della sua città di Reggio e son tanti “Aristide, Demostene, Aristocrate, Fitio, Elicaone, Mnesibulo, Ipparchide, Eutosione, Euticle, Opsimo, Calaide, Selinuntio” i nomi che Giamblico elenca difetta proprio il suo nome? Forse che davvero non sia mai esistito e che sia solo un fantasma dalle fonti inventato? Capisco che l’ardire non è  prova ma questa mancanza a differenza della tua, maestro Myes, che di contro ci sei nel lungo e particolareggiato novero di Giamblico, qualche perplessità dovrebbe almeno sollevare. E plaudendo agli storici che pur “epitomatore” ti dicono non posso però non cantare l’amore per la tua città e per tutte le città che allora con la Sicilia vantava la Magna Grecia, perchè quando ancora erano acerbi i frutti della civiltà, tu, un aristocratico della sapienza antica, con la tua “epitome” sicuramente concorresti, sia pure Ippia l’autore, con il buon governo a tramandare dei tuoi confratelli più diffusamente il vanto delle “leggi”. Scrive Giamblico: “passo piuttosto a esporre in che modo alcuni pitagorici ricoprirono il ruolo di poli­tici e dirigenti. Alcuni di essi infatti custodivano le leggi e amministravano le città d’Italia, mostrando nel loro comportamento, e consigliando agli altri, quanto reputa­vano rappresentasse il meglio, e inoltre evitavano di met­tere le mani sulle entrate della comunità. Nonostante contro di essi si fossero levate numerose accuse, tuttavia fino a un certo momento la probità dei pitagorici preval­se, e così anche la volontà delle stesse città, tanto che si volle che fossero loro ad amministrare gli affari pubbli­ci. E’ in quest’epoca che in Italia e in Sicilia ci furono,a quanto sembra, i migliori ordinamenti politi­ci. Caronda di Catania, che gode fama di essere stato uno dei migliori legislatori, fu pitagorico; e pitago­rici furono Zaleuco e Timare di Locri, divenuti famosi per la loro attività legislativa” confermando quanto alto e solenne fosse presso la tua Scuola il civico impegno e della “polis” la cura. Onore e vanto dunque a te, maestro, ed alla tua Scuola, alla tua “epitome” che producendo “diversi frutti con coloriti fiori ed erba” ha reso il nome della tua città ancora più grande. E se poi in cammino con te, maestro, oramai la mia “epistola” cede e si fa stanco il passo e da te vuole congedarsi, non muore la tua gloria chè anzi, tu che puoi, vola sulle ali di “Unico settimanale” e per la rubrica de’ “La scvola di Atene” vai nella tua bella città di Poseidonia, dove il popolo dispone ed altri nomi impone e porta a coloro che oggi la abitano e la governano il mio saluto e il tuo nome, maestro Myes, ritrovato.

    Questo, maestro, il mio epigramma per te rubato: Onore e vanto a te che tra i pitagorei il nome tuo di Myes fai grande e premio hai di mille da me collane d’oro.

    E poi ancora un altro: E se nell’oblio delle fonti fu di Ippia la vittoria, sappi, straniero, che di quella “antica storia” io solo fui la gloria!

    Questo, maestro, nel novembre al principio l’amore infranto ed il mio rimpianto… il fiore che ti porto!

    Chiusa nelle prime ore antimeridiane del giorno di mercoledì 1 novembre dell’anno 2023 

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