La scvola di atene onora l’antica e nobile scuola pitagorica di poseidonia secondo l’ordine di Giamblico di Calcide

A Cranao, figlio di Poseidonia, che dei 218 di Giamblico trasse il nome e fu il IV ... il mio saluto

Com’è potuto mai succedere? A noi che pure sfortunati tenemmo radici greche?” e prima sotto il dominio dei lucani e poi quello di Roma del tuo buon governo, maestro Cranao, e di quel tuo tempio se ne perse addirittura il ricordo.

Cultura
Cilento sabato 13 aprile 2024
di Gaetano Ricco
Paestum Tempio di Nettuno
Paestum Tempio di Nettuno © Settimanale Unico

 

EPIGRAFE

Nel novero complessivo dei pitagorici molti, come è ovvio, sono rimasti sconosciuti e anonimi, ma di quelli che si conoscono, i nomi sono i seguenti… di Poseidonia: Atamante, Simo, Prosseno, Cranao, Myes, Batilao, Fedone.

                                                                                      (Giamblico “Vita Pitagorica”)

Ed anche per te, maestro Cranao, figlio della città di Poseidonia che dei duecentodiciotto di Giamblico traesti il nome e fosti di Poseidonia il quarto, canterò il mio canto- E per te, cui “nulla c’è di più dolce della terra natale”” come comandava la tua regola pitagorica: “all’am­ministrazione degli affari pubblici di natura interna o estera, perché le leggi cosi volevano: erano tutti affari in­fatti di cui essi intendevano occuparsi nelle ore pomeri­diane” tutto dedicasti il tempo tuo migliore secondando, con la tua sapienza, della tua città con le leggi il buon governo, io, discepolo indegno di tanto tempo, canterò le tue lodi, maestro, chè sempre per la patria vanta l’amore di essere ai posteri tramandato...

Un canto nuovo eppure antico che altri per te stesero ed io, in una nicchia annerita di una vecchia casa, ora la mia, rinvenni. Un canto che srotolandosi solennemente consegnava alla gloria della tua antica città di Poseidonia il tuo buon governo, per te lodando quel venerabile e solitario poeta della terra di Albanella il vanto delle tue leggi che la fecero grande.

E tanto era di ineffabili accenti accesi l’ammirazione per la tua sapienza e per la bellezza della tua città che non potei non provare un senso di esaltazione e di giubilo. Era la mia antica terra greca che prospera tanta e grande un giorno, ancora una volta, per te, maestro Cranao, tornava a parlarmi.

Ed avrei voluto presto quel canto pubblicare ma mi tormentava del degnissimo poeta il suo severo ammonimento a piè del canto vergato: “ti custodisca in eterno il silenzio”. E non mai avrei proceduto, lasciando colpevolmente nell’oblio, chi a luce era risorto, se del “Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799” l’autore non mi avesse soccorso. Era l’anno del Signore 1806 quando tornando lo storico in una sua vecchia casa “ove già fu Eraclea” cercando tra le carte di un suo “avo eruditissimo, come tutto il mondo sa, nel greco idioma” rinvenne un manoscritto dall’avo a sua volta ritrovato “facendo scavare le fondamenta” di quella casa e che in tempo lesto tradusse e avrebbe ancor più velocemente voluto pubblicare, ma considerando poi che a nulla sarebbe valso “rammentar agli italiani che essi furono una volta virtuosi, potente e felici? Oggi non lo sono più.

Che vale rammentar loro che furono un giorno gli inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Oggi è gloria chiamarsi discepoli degli stranieri” lo aveva di nuovo condannato all’ oblio, giurando che “se ancora vivesse” che mai “il manoscritto non  vedrebbe luce del giorno”.

“Ma io”, ed anch’io, lettore così farò, continua lo storico molisano che di quel manoscritto ne lessi i temi e l’essenza pensai “diversamente dal mio avo ed ho risoluto pubblicare il manoscritto” chè altrimenti perduto avrebbe quello che il mondo conobbe come il gran libro del “Platone in Italia” e fu bene.

E se al mondo, ma potrebbe accadere, maestro Cranao, un altro “Platone in Italia” non consegneremo, verrà almeno il tuo nome ricordato e se “qualunque sia il giudizio che il pubblico pronunzierà” alcuni avanzeranno critiche e riserve, sappi, maestro Cranao, che io sono con il mio eruditissimo maestro e con Albanella vanterò la mia disobbedienza alla tua opera ed al tuo nome. E così, contravvenendo alla volontà dell’eruditissimo maestro della mia casa abitatore e primo costruttore, mi sono risoluto di pubblicare e di affidare la sua “epistola” alle ali della mia rubrica “La Scvola di Atene” che da anni con “Unico settimanale” ci tiene compagnia, perché, tornando nuovamente a casa, possa la tua sapienza al miope cabotaggio del mio tempo giovare. E se nella trascrizione qualche parola o verso fuggirà o sarà al mio tempo sacrificata, mi perdonerà il mio eruditissimo maestro, chè al mio mondo troppo grave e pesato, alto è il prezzo da pagare per chi vuol coltivar poesia e non trova… radici.

Comincia il canto: era la stagione che la natura risveglia, quando principiando, con le sue prime luci l’aurora a indorare le prime pietre della “via sacra”, tu, consegnando alla regola la tua solitaria passeggiata “in luoghi dove regnassero solitudine ed adeguata tranquillità, e fossero templi e boschetti e quant’altro poteva allietare il cuore”, tu tornavi, maestro Cranao, e lesto ti affrettavi a recarti al “Tempio delle Muse”, che il tuo primo Maestro ordinava di edificare in ogni città dove un suo “collegio” nascesse, “perché queste dee, diceva, portavano tutte insieme lo stesso nome, erano note alla tradizione come una comunità e si compiacevano in sommo grado del cul­to comune; e poi il coro delle Muse era sempre uno e co­stantemente il medesimo, e in più racchiudeva in sé ac­cordo, armonia e ritmo, cioè tutto quanto crea la concor­dia” e nessuna città che alla concordia volesse votare il suo cammino poteva rimanerne spoglia. E così raggiunta la “Casa” dove al centro alto e solenne sorgeva l’altare del  tuo dio, levavi le braccia al cielo e mentre i profumi di incenso esalavano, così, dopo averlo salutato: “Salve, signore, tu che governi e regni sovrano su Delo circondata dalle acque e dai vita agli uomini mortali, agli uccelli del cielo e a tutte le specie animali che la terra e il mare nutrono in gran copia, sorgi e con i tuoi raggi illumina il mondo” ti recavi nell’ampia sala destinata alla trattazione degli affari pubblici, obbediente all’insegnamento del Maestro che diceva che ognuno “avrebbe dovuto considerare la patria come un deposito affidato dalla cittadinanza a tutti loro insieme e perciò governarla in modo da lasciar intendere che avrebbero trasmesso in eredità ai propri figli la fiducia in essi riposta”, dopo che il più anziano vi ricordava quanto  “nota era la fama della nostra città e della nostra terra e la bellezza del nostro cielo” e vi ammoniva nel vostro pubblico esercizio di “non abusare nei giuramenti del nome degli dèi, bensì usare parole che fossero credibili anche a prescindere da un giuramento”, con gli altri fratelli, maestro Cranao, ti accingevi a discutere degli affari della città, delle leggi e delle decisioni più utili al buon  governo della città. Erano i tuoi giorni della città i più fecondi eppure i più difficili, intensificandosi infatti e crescendo gli scambi commerciali, cresceva la città e con la città cresceva dei cittadini la ricchezza e con la ricchezza subdolamente prendeva in città ad allignare quel peccato che, tra tutti, era dagli dei il più odiato, degli uomini la “hubris”.

Quel peccato che ben sperimentò la città di Crotone quando insuperbitasi per la vittoria sulla vicina città di Siri, volle “primeggiare” anche su quella di Locri, con la quale dipoi venuta a guerra, come il “Platone in Italia” narra, “quindicimila locresi, risoluti di vincere o di morire, vinsero centomila crotoniati ammolliti dalle ricchezze e insolentiti per la fortuna passata e per insolenza trascuranti di ogni disciplina” fu rovinosamente sconfitta.

E tanto ne pagarono di quel peccato alto i crotoniati il fio che disperati e perduti nel rischio della vita, circolando sempre più “di bocca in bocca” la fama di Pitagora, a lui si rivolsero  per essere salvati, e queste, che tu, maestro Cranao, ben conoscevi, furono le sue parole:“ le sventure vengono dagli iddii, che voglion talora con esse provare gli uomini e le città e…voi oggi siete disperati perché avete perduta una battaglia. Non son dieci giorni, ed eravate superbi per quelle avevate vinte… quando eravate vincitori non vi tornò mai in mente che la fortuna, sempre instabile, dovea un giorno cangiarsi? Ebbene, crotoniati, ciò che finora nessuno vi ha detto…io vi dirò. Tutto il vostro male è in voi stessi. Avete vinto, ed avevate vinto per fortuna, siete stati battuti e lo siete stati per necessità…ove è (infatti) la temperanza nei consigli pubblici, la quale non permettendoci di insolentire nella prospera fortuna, ci libera dai pericoli dell’avversa? Ecco il bene che dovreste procurare e sarete sempre vincitori".

Parole sagge, che affermando che la giustizia “ri­siede nella comunità dei beni, nell’uguaglianza e in un’u­nione tra gli uomini tale che tutti possano sentire come un corpo e un’anima sola e chiamare la medesima cosa mia e tua” e che questo principio esteso “fino ai più vili, che pure sono causa di contese e disordini” è sempre fonte di concordia e buon governo, tu, maestro Cranao, consapevole del pericolo che la città stava correndo, da tempo con i tuoi fratelli reggevi, anche in considerazione che “sono riusciti i migliori legislatori: in primo luogo Caronda di Catania, quindi Zaleuco e Timarato, che hanno redatto le leggi per i Locresi, e poi an­cora Teeteto, Elicaone, Aristocrate e Fitio, legislatori di Reggio” proprio coloro che “pitagorici” avevano, come te, quel principio applicato. E così levandoti alla tua città primo legislatore, convinto che, della fortuna della città, si dovesse sempre, come l’antico maestro comandava, ringraziare gli dei e segnatamente il tuo dio Apollo, che con il giorno due volte all’anno faceva fiorire le vostre rose, a lui, perché benevolenza durasse e continuasse con i suoi riccioli d’oro ad illuminare della città il cammino, proponesti di erigere a lui, alla sua maestà, un nuovo tempio.

Erano i giorni del terzo anno della LXXXIII Olimpiade e di quel tempio, che ancora oggi della tua città rimane la gloria più alta, cominciarono i lavori a sorgere in quel luogo sacro dove da tempo regnava e vegliava sulla città il tempio della grande madre di tutti gli dei: “Era dal trono d’oro”. E poiché “i pitagorici” scrive Aristotele “essendosi applicati allo studio delle matematiche per primi le fecero progredire e approfonditi in esse si formarono l'opinione che i principi fossero i principi di tutte le cose esistenti e…nei numeri essi credevano di scorgere molte somiglianze con ciò che esiste o diviene più che nel fuoco, nella terra o nell'acqua. Così, per esempio, una certa proprietà dei numeri era per loro giustizia, un'altra anima o mente, un'altra ancora punto giusto e così via si può dire per ognuna. Vedendo poi ancora che le note e che gli intervalli delle gamme musicali consistevano i numeri… furono indotti a supporre che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose esistenti che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero” e a quel “numero” che del tuo dio portava “significatione” e che il maestro nella sua “coscia d’oro” ne nascondeva il segreto, con tutta l’assemblea a favore, deliberasti a quel “numero”, che principio era di tutte le cose, di affidare di quel tempio il destino. E tanta ne sorse meraviglia e stupore che ancora oggi la sua bellezza il mondo abbaglia e sorprende. E non da Atene o dalla Ionia ricca di porti venne l’artefice, chè, come diremo, quando io per lui e fu il terzo nel novero di Giamblico, osando la mia epistola “corsara”, oltre le fonti, era in casa tra i tuoi a coltivare con il “disegno” e la progettazione l’armonia dell’universo sulla terra. Sorse il tempio e possente e tanta ne risuonò la gloria della tua Scuola e di quel vostro “numero” che ancora oggi ne dura il ricordo. Ma non mai mancando “coloro che al buon governo si oppongono si sollevarono” vennero poi abbandonati i vostri insegnamenti e tramontato il sole, come cantava il faraone che al Sole si donò: “quando tu tramonti la terra è dominata dalle tenebre , come assalita dalla morte” la città lentamente si imbarbarì “hanno mutato, scriveva Aristosseno da Taranto “lingua e le altre abitudini, ma celebrano ancora delle feste greche, e convenuti là rammentano (quegli antichi uomini... ) i nomi e i costumi antichi e si compian­gono l’un l’altro e lacrimando si separano..  come abbiamo, continuava, crescendo, il mio poeta greco, “potuto mai decadere, vivere e parlare barbaro? Com’è potuto mai succedere? A noi che pure sfortunati tenemmo radici greche?” e prima sotto il dominio dei lucani e poi quello di Roma del tuo buon governo, maestro Cranao, e di quel tuo tempio se ne perse addirittura il ricordo.

Fino a quando liberato dai mefitici confini acquitrinosi della palude che dall’ingordigia dei re che pietra per cattedrali ti avrebbero voluto, ti avevano protetto, risorse il tempio e visitato ed ammirato da schiere numerose di viaggiatori tornò a consegnarsi alla storia ed alla gloria della nostra terra.

Ecco cosa scriveva il secolo scorso l’archeologo Pellegrino C. Sestieri: “Quello che si presenta ai nostri sguardi è senza dubbio il più bello e il più perfetto dei templi dorici conservati: l’armonia delle sue forme è tale, che mai più è stata raggiunta in altri pe­riodi della storia dell’architettura greca…. Visto dall’esterno, il Tempio di Hera Argiva, detto di Nettuno, (presto di Apollo) dà l’impressione di una saldezza incrollabile, ma nello stesso tempo di leggerezza… e vi si ritro­vano … tutti gli accorgimenti tecnici constatati nel Partenone, la cui invenzione era stata attribuita al suo architetto, Ictino di Mileto” e aggiungendo lo scopritore della “Tomba del Tuffatore”, (tomba, ricordiamo, che del tuo tempo, o Cranao, fu coeva e forse, chissà, di un tuo confratello la sepoltura) che “l’elemento di fondo per conseguire tale unità è il rapporto tra la larghezza e la lunghezza” molto probabilmente pensava proprio a quel tuo “numero” ovvero quella “divina proporzione” che tutta si contiene in quella “serie numerica” di quel genio che con lo zero al mondo consegnò l’armonia.

E se ancora oggi, a fronte di ipotesi che avanzano sempre più autorevoli si continua a sostenere che quel tempio è a Poseidone dedicato, presto, come il dio che da sempre lo regge e lo comanda, si farà luce e tornando, maestro Cranao, di quel tuo tempo in cui, vivi gli insegnamenti del maestro, erano con gli dei gli antenati amati e onorati e le leggi ispirate dagli dei erano dagli uomini amate e rispettate e tornerà a riempirsi di un nome nuovo il tuo tempio e “ una voce potente che uscirà dal trono” e sarà il Tempio di Apollo già di Poseidone!

Congedo

Ho voluto trascrivere intero, o lettore, questa epistola onde tu sappia che né tu avresti nulla di nuovo da dirmi né io avrei nulla di nuovo da risponderti. Sta sano  (Vincenzo Cuoco, “Platone in Italia”)

Questo, maestro, il mio epigramma per te: “Alle leggi ed al buon governo legasti la tua vita e fosti pitagorico dei sette il legislatore”.

Ancora un altro: “Mi citò il Siro e fui alle leggi attento e devoto nel calendario pitagorico annotai tutta la mia vita.Ancora un altro: “E quando tutto fu pesato entrai e per cinque sulla soglia fui in silenzio anni dietro la tenda.

Questo, maestro, nei giorni del novembre amaro l’amore e il mio riparo … il fiore che ti porto!

Chiusa nelle ore antimeridiane del giorno di domenica 19 novembre dell’anno 2023  

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