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    Percorso:Home»Cultura»LETTERA A PSEUDO DIONIGI AREOPAGITA LA SCVOLA DI ATENE TAVOLA XXXIX– LXXIII EPISTOLA PRIMA
    Cultura

    LETTERA A PSEUDO DIONIGI AREOPAGITA LA SCVOLA DI ATENE TAVOLA XXXIX– LXXIII EPISTOLA PRIMA

    Di Gaetano Ricco29 Aprile 202513 Min Lettura68 VisiteNessun commento
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    Si vanti pure e gridi alto di Dionigi la magnifica regione della Siria il nome! Allo Pseudo Dionigi Areopagita (V -VI sec. d.C.) figlio della Siria che affermò di Dio che sol si dice se non si dice … il mio saluto!

    EPIGRAFE

    Tu, o caro Timoteo, con un esercizio attentissimo nei riguardi delle contemplazioni mistiche, abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, tutte le cose sensibili e intelligibili, tutte le cose che non sono e quelle che sono; e in piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso l’unione con colui che supera ogni essere e conoscenza. Infatti, mediante questa tensione irrefrenabile e assolutamente sciolto da te stesso e da tutte le cose, togliendo di mezzo tutto e liberato da tutto, potrai essere elevato verso il raggio soprasostanziale della divina tenebra.

                                                     (Dionigi Areopagita “Tutte le opere” Rusconi Milano)

    Avevo da qualche giorno chiuso la mia ultima “Epistola a Cassiodoro” ed in attesa  del prossimo maestro, confesso che stavo pensando all’ultimo grande et sfortunato scolarca della “Accademia di Atene” che chiusa, nell’anno del Signore  529, per volere dell’imperatore di Bisanzio, fu, con altri sei, che ancora duravano nell’antico insegnamento, costretto a fuggire in Persia ed a molto ramingare prima che in Atene tornasse, quando, leggendo di “quel tal romanzetto ove si tratta del “Nome della Rosa”, uno, con la “Divina Commedia” ed “I Promessi Sposi”, dei tre libri cui spesso torno nel mio tempo migliore, in quella tumultuosa disputa che si stava accendendo tra il venerabile Jorges di Burgos ed il maestro di Adso, tal Guglielmo di Bascavilla, che frate francescano fu di Santa Madre Chiesa “inquisitore”, all’improvviso come “una colomba che stava nelle fessure delle rocce nascosta” irrompesti tu, maestro Dionigi, e con quella tua affermazione che “Dio può essere nominato solo attraverso le cose più difformi” tutto mi turbasti, consegnando forse al maestro di Bascavilla la palma ed a me, mirabile a dirsi, il vanto del novello maestro.

    Infatti, pur essendo l’ultimo scolarca, dei secoli di cui, in quei giorni, mi stavo curando, vissuto tra il V ed il VI secolo, ero molto dubbioso e non per la di sua grandezza di cui, prometto, prossimamente dirò, ma per la poca consonanza che trovavo con il tema del Dio cristiano che con Boezio e Cassiodoro avevo tentato di toccare. Per cui, se pur ancor confuso ma colpito da quella tua asserzione, come già Dante con Tommaso un dì, anch’io tosto abbandonai la vecchia strada e volgendomi devoto alla tua parte, lesto mi incamminai sul tuo sentiero e di te, maestro, detto lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, mi feci immantinente discepolo fedele.

    Ma come era sulla liceità del riso cominciata quella disputa nella quale tu, maestro Dionigi, irrompendo mi desti il fianco al mio congedo?

    Era l’ora nona di quel primo giorno dei sette che il frate di Bascavilla trascorrerà in quella famosa abbazia benedettina “di cui”, scrive lo stesso autore, “è bene e pio si taccia oramai anche il nome” quando “in quel gioioso opificio di sapienza”, che era la monumentale biblioteca di quella abbazia, scorrendo Adso, il giovane novizio del frate francescano, alcune pagine di “uno squisito libro” i cui “ margini erano invasi da minuscole figure… sirene marine, cervi in fuga, chimere, torsi umani senza braccia…figure belluine dalle teste umane”, all’improvviso si ricordò di alcuni versi che aveva udito in una regione “dove si arriva cavalcando un’oca blu…e dove i gamberi volano con le colombe e tre giganti presi in trappola e morsicati da un gallo e…le case  sorgono sulla punta di una guglia e la terra sta sopra al cielo” liberando il riso malizioso di alcuni confratelli che erano lì curiosi, anche se per ammendarsi poi subito pensò che quelle figure sebbene poco “perpiscue” per essere lì “in quel punto” dovevano pur sempre avere un “profondo significato spirituale” .

    E quindi continuando il suo racconto, narra l’aitore, tutti “si misero a ridere di cuore” quando d’improvviso “una voce solenne e severa” si levò per tutto lo “scriptorium” gridando “verba vana aut risui apta non loqui” ossia non si dicano parole vane o adatte al riso. Era il “venerando d’età e di sapienza” colmo, il vecchio venerabile Jorges de Burgos che temendo che i versi di quel “mondo a rovescio” in cui l’asino suona la lira, i fiumi risalgono le correnti e il mare si incendia, anche Dio stesso con il tempo, avrebbe potuto prima essere prima schernito e poi negato per cui non solo ogni immagine che per la propria bizzarria inclinasse al riso ma lo stesso riso andava condannato e da ogni luogo bandito. Ed è questo, maestro Dionigi, il momento che per quel tal Guglielmo di Bascavilla che per amore della verità lasciò il “noto” incarico, che intervenendo con il tuo pensiero in difesa del giovane novizio, io rimasi  da tanto dal tuo impeto con il mio Dio “discorde” che sentii forte dentro di me il desiderio di arare, a me ignoti, i tuoi fertili campi .

    E così abbandonando di quella lettura la “vexata quaestio” chiusi il libro e corsi a bussare alla tua porta per interrogare, maestro, prima il tuo “Corpus” et poi “umilmente” in silenzio ascoltare la tua voce. Non che io, maestro, non ti conoscessi, chè famoso era già il tuo nome ancor di più in quel secolo che tu ti attribuisti e non fu il tuo, ma mi mancava però di te, in quella particolare “fattispecie” dell’essenza di Dio la ragionevole comprensione di quella tua “inconsueta” affermazione. Affermazione che assegnando a Dio l’imperfetta virtù della difformità lo rendeva ai mei occhi inadatto alle tante definizioni che pure, per tanti altri filosofi, in quei giorni affollavano la mia mente, e non potei, come già scrissi, di non bussare alla tua porta.

    Ed ora che per la lettura delle tue fulminanti linee mi sono al tuo pensiero affacciato, scopro quanto lontano sia il tuo Dio dal nostro, dal mio tempo e di quanto, mancando oggi da parte dei vertici romani, anche i più alti, l’attenzione alla solennità, al valore ed al mistero della “liturgia” che in una lontana udienza dell’anno del Signore 2008 papa Benedetto XVI di te, maestro Dionigi, parlando, ebbe a dire: “tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa e… diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature”, perché è solo in comunione della “liturgia” che si può avvertire di Dio la presenza.

    Una presenza che non è presenza fisica ma distanza di assoluta abbondanza e che solo un Dio di sé geloso può, nel luogo alto a Lui deputato, nel cammino solenne delle cerimonie e dell’incenso significare. Una luce vividissima ed una oscurità fittissima è maestro Dionigi, il tuo Dio, un Dio che solo il silenzio della contemplazione della preghiera può lambire in un cammino di ascensione mistica che solo la fede può donare.

    Perché la “tenebra ineffabile” che tu definisci essere “non è né anima né intelligenza; non possiede immaginazione o opinione o ragione o pensiero; non è né parola né pensiero, non si può esprimere né pensare; non è numero, né ordine né grandezza né piccolezza né uguaglianza né disuguaglianza né similitudine né dissimilitudine; non sta fermo, né si muove né riposa; non ha potenza e non è potenza; non è luce, non vive, né è vita; non è sostanza, né eternità né tempo; non è oggetto di contatto intellettuale, non è scienza, né verità né regalità né sapienza; non è né uno, né unità né divinità né bontà; non è spirito come lo possiamo intendere noi, né filiazione né paternità; non è nulla di ciò che noi o qualcun altro degli esseri conosce, e non è nessuna delle cose che non sono e delle cose che sono; né gli esseri la conoscono secondo ciò che ella è; né essa conosce gli esseri nel modo in cui essi esistono; di lei non c’è parola o nome o conoscenza; non è tenebra e non è luce, né errore né verità, e nemmeno esiste di lei in senso assoluto affermazione o negazione, ma quando affermiamo o neghiamo le cose che vengono dopo di lei, non affermiamo né neghiamo lei; dal momento che supera ogni affermazione la causa perfetta e singolare di tutte le cose, e sta al di sopra di ogni negazione l’eccellenza di chi è sciolto assolutamente e da tutto, e sta al di sopra dell’universo” altro non è, maestro Dionigi, che il tuo Dio ed all’uomo altro rimane che quel cammino che sollevandosi ad ascesi solo può cogliere quella trascendenza assoluta ed inviolata che è la sua vera essenza. Ed allora predicare e non pregare, come hanno fatto in tanti delle di Lui qualità e dei suoi attributi, tutto diventa inutile et vano.

    Come si può infatti di un Dio, che per sua stessa definizione rimane inafferrabile ed inenarrabile nel suo mistero predicar parole, che nascendo umane sono per sua natura imperfette e di conseguenza incapaci a penetrare la profondità abissale di quella “oscura tenebra luminossisima” che è, maestro Dionigi, il tuo Dio senza confini “alle parole dell’intellezione” ma solo  “silenzio e contemplazione”. Nulla allora all’uomo rimane  se di abbandonarsi a Lui in una completa et fiduciosa donazione, perché, come potrai nei suoi testi leggere, lettore, Dio è quella “trinità soprasostanziale superdivina e superbuona, custode della divina sapienza dei cristiani” che sola, ed è l’appassionata preghiera del maestro Dionigi, può condurci “direttamente verso il vertice superinconoscibile e splendidissimo e altissimo delle Scritture occulte, là dove i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati nella caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente; caligine che fa risplendere in maniera superiore nella massima oscurità ciò che è splendidissimo, e che esuberantemente riempie le intelligenze prive di occhi di splendori meravigliosi, nella completa intangibilità e invisibilità.

    Questa sia la mia preghiera”. Interdetta dunque all’uomo ogni altra possibilità che non sia il silenzio della contemplazione per penetrare Dio, alla vecchia “teologia catafatica” dei Padri antichi opponesti la tua “teologia apofatica”. Una teologia che pur muovendo da quel terzo scolarca che in Atene dell’“immanentismo” di Plotino ne rinvigorì la potenza, tanto, maestro Dionigi, per ordini e gradi in divina “gerarchia” per tutto il mondo e i secoli a venire l’avanzasti da giungere con il suo “panteismo sostanziale” fino a quel Grande che con la sua “De divisione naturae” alla “Scolastica” diede inizio, a Dio dell’uomo consegnando il suo unico destino.  E nulla di Tommaso con il suo “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” le sue cinque vie potranno per chi, credendo vorrà, con Dio in comunione unirsi, chè altro alla comunione con Dio urge diverso cammino.

    Non la ragione ma la fede con l’amore che, ci ricorda papa Benedetto, vede molto più della ragione, potrà infatti solo arrivare a Dio . Un cammino di contro in alto che consumandosi nei lunghi silenzi della preghiera e della contemplazione, a mo’ di Cristo che scendendo (verbum caro factum est) e poi salì, potrà, in verità, trasformare l’uomo in quella novella “copula mundi” che fu già di quel Grande che la nuova “Accademia Platonica” di Firenze fondò e tanti libri di altri ci lasciò. E quindi per realizzare quella mistica unione che dell’amore di Dio farà il nostro desiderio sostanza e per poter finalmente penetrare quella trascendentale “ineffabile tenebra luminosa” che è Dio e che stando al di sopra di tutte le cose, tu, maestro Dionigi, dici “ non è né senza sostanza né senza vita né senza ragione né senza intelligenza; tuttavia, non è né un corpo né una figura né una forma e non ha quantità o qualità o peso; non è in un luogo; non vede, non ha un tatto sensibile, non sente né cade sotto la sensibilità; non conosce disordine e perturbazione per essere agitata dalle passioni materiali; non è debole né soggetta agli errori sensibili; non ha bisogno della luce, non subisce mutamento o corruzione o divisione o privazione o diminuzione; non è alcuna delle cose sensibili, né le possiede” atteso che niuna parola umana può definirlo nemmeno quelle che ci vengono dalle Sacre Scritture,

    urge, dunque, come già si scriveva, altro cammino. Ed ecco, maestro Dionigi, allora la tua risposta, quella teologia mistica, che tutti abbiamo imparato a conoscere come l’“apofatica”, e che tanto si diffuse e fu potente da toccare non solo il tuo tempo ma oltre avanzando per molti secoli tanto giunse in quel divin poema di Colui che traversando dell’aldilà i tre regni purgato giunse al cospetto del tuo Dio, che alto ti ci conquistasti un trono, quando di te cantando : “questi ordini di sù tutti s’ammirano, /e di giù vincon sì, che verso Dio / tutti tirati sono e tutti tirano. /E Dionisio con tanto disio / a contemplar questi ordini si mise, /che li nomò e distinse com’io” umilmente si dichiarò il divin Poeta tuo discepolo. E quando poi finalmente  venne al “fine di tutt’i disii”  e la sua vista “più e più intrava per lo raggio /de l’alta luce che da sé è vera”/ constatando che il suo “veder fu maggio /che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede” ancora una volta il divin Poeta, ricordando che il “trasumar… per verba non si poria”, ancora una volta di te,  maestro Dionigi, si fece allievo e furono tuoi quei versi e quel suo stupore quando esclamando “oh quanto è corto il dire e come fioco /al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, /è tanto, che non basta a dicer ‘poco’, tutto venne dalla tua parte di te sigillando con il canto la tua gloria e il tuo altare e più, maestro, non ti mancarono corone. E se qualcuno, poi, perché di Paolo e del suo tempo volesti farti discepolo “Pseudo” ti tacciò, non ti crucciare, maestro Dionigi, perché, come già in quella succitata udienza, il tuo gesto disse il papa non fu falsità ma solo “un atto di umiltà” per “non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo”

    Grazie, maestro Dionigi, detto l’Areopagita.

    Questo, maestro, il mio epigramma “Vuoi, lettore, parlare del mio Dio, allora taci, ché non bastano le parole e son sole fole”

    C’è ancora, maestro, un altro epigramma “E se quel giorno non eri all’Areopago pure della vita il corso ti cambiò quel discorso”

    Questo, maestro, nei giorni del gennaio perduto l’amore sconosciuto ed io canuto… il fiore che ti porto!

    Chiusa nelle prime ore antimeridiane del giorno di domenica 26 gennaio dell’anno del Signore 2025

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