«La mostra approfondisce la riflessione sulla pittura di Eliana Petrizzi e la fotografia di Franco Sortini, interrogandosi su come due linguaggi apparentemente così differenti sanno interpretare il tema del paesaggio..."
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“Tendere all’infinito”. Tra pittura e fotografia

A mano a mano che si attraversano le sale espositive, alla fine ci si rende conto che la mostra porta il visitatore in quella dimensione altra, intima dove è d’obbligo riflettere

Cultura
Cilento martedì 21 giugno 2022
di Vito Pinto
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“Tendere all’infinito”. Tra pittura e fotografia © n.c.

Nelle nuove e ritrovate sale della prestigiosa Pinacoteca provinciale di Salerno si è appena conclusa la mostra “Tendere all’infinito” della pittrice Eliana Petrizzi, avellinese, e del fotografo Franco Sortini, salernitano, a cura di Michelangelo Giovinale, promossa dall’associazione “Montoro contemporanea” diretta da Gerardo Fiore. Una mostra che ha inteso mettere a confronto, su tema, due arti, una antica come la pittura ed una moderna come la fotografia, due mondi che potrebbero confliggere tra loro, ma che, nel caso, dialogano.
E subito si pone una domanda: cosa ha accomunato i due autori in questa esposizione di opere pittoriche per l’una, e fotografiche per l’altro, operanti su due territori geograficamente non distanti, ma decisamente diversi per quanto offrono alla lettura artistica del contesto sociale, paesaggistico, culturale?
La risposta non è solo in una riflessione sul rapporto tra le due espressioni d’arte, ma soprattutto sul tema scelto – anche se indipendentemente l’una dall’altro – sul paesaggio che viene letto, meditato non solo con le rispettive sensibilità, ma proposto con mezzi e tecniche diverse.
Scrive Gerardo Fiore in un elegante quanto agile catalogo: «La mostra approfondisce la riflessione sulla pittura di Eliana Petrizzi e la fotografia di Franco Sortini, interrogandosi su come due linguaggi apparentemente così differenti sanno interpretare il tema del paesaggio, inteso soprattutto come dimensione psicologica e metafisica della visione e dello spazio». Una ricerca che nei lavori di Petrizzi e Sortini si mostra in tutta l’assordante assenza di presenze umane o figure di sorta: è l’asetticità più completa, totale dove tutto è ricondotto dalla Petrizzi esclusivamente ad una collina, una superfice piatta o di qualcosa d’altro che rende impossibile la presenza umana, un’assenza esaltata, se possibile, da quei tagli fotografici di scogli, di strade vuote, di angoli di edifici, impilate di porte interne ad appartamenti vuoti, ciminiere in silenziosa solitudine alle quali Sortini ci ha ormai abituati.
Scrive Michelangelo Giovinale in testo critico: «Luoghi che sembrano non coincidere con la realtà, nelle umide atmosfere di paesaggi rurali e in quell’architettura fotografica dell’urbe, dove il timer del countdow quotidiano caotico sembra essersi azzerato. Immagini solitarie che emergono sospese, nella parentesi di un silenzio, in quei luoghi che si mostrano, come davvero sono, con la loro percettiva immanenza».
Di fronte alla sequenza di tele e foto, che quasi si scrutano dal loro ordinato seguirsi sulle pareti espositive, ancora una volta sorge una domanda: sono immagini di un altro mondo o di un mondo altrui inteso come temporaneità e non collocazione geoastrale, oppure è un mondo ormai alle porte, stante l’ecoallarme sullo stato di salute del nostro pianeta?
Un senso di profonda inquietudine si impadronisce dell’animo, la mente fa fatica a seguire logici pensieri… e tutto rimane sospeso, in attesa di un’alba, di un altro giorno. Il rosso cupo, dilagante di un non meglio precisato prenotturno della Petrizzi e la calma, limpida superfice marina a lambire uno spunto di roccia (uno scoglio?) di Sortini richiamano alla realtà dove, in spazi ritrovati della Pinacoteca, porzioni di natura della pittrice si affiancano, quasi a dialogo, alle architetture del fotografo. Ognuno dei due artisti ha lavorato con i suoi strumenti alla ricerca di una identità paesaggistica a lui circostante, cercando di “tendere all’infinito”; ed è l’incontro discreto, sottovoce di due arti, di due artisti che, alla fine, mostrano di aver scavato, se pur singolarmente, nel proprio “ego” per una identità spirituale che li accomuna. Una identità che, nelle opere dei due artisti, si sintetizza in quell’assenza umana e, nel contempo, in quella presenza dell’ineluttabile come può essere lo scandire del tempo (giorno, tramonto, notte), o il movimento erosivo del mare, nell’attesa dell’immobile ad animarsi con probabili presenze.
A mano a mano che si attraversano le sale espositive, alla fine ci si rende conto che la mostra porta il visitatore in quella dimensione altra, intima dove è d’obbligo riflettere.

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