A Marcello Feola, commissario del Parco del Cilento. Gli auguri di buon lavoro non sono soltanto una prassi, ma una amichevole opportunità per porgere i saluti come vecchio collega di facoltà

A colloquio "postumo" con Vincenzo La Valva

Vincenzo La Valva, chi lo ha visto all’opera è rimasto colpito per la competenza dello scienziato e per l'umanità. La sua sensibilità trasformava la conoscenza tecnica in feconda testimonianza tra uomo e paesaggio

Cultura
Cilento giovedì 02 febbraio 2023
di La Redazione
Immagine non disponibile
Vincenzo La Valva durante un consiglio © Unico Settimanale

È di questi giorni la nomina del professore Marcello Feola a commissario del Parco del Cilento. Gli auguri di buon lavoro non sono soltanto una prassi, ma una amichevole opportunità per porgere i saluti come vecchio collega di una facoltà che ha dato il suo contributo nel preparare tanti tecnici che operano nella struttura, come può testimoniare l’attuale direttore. Mi prendo perciò la libertà di invitarlo, nell’approntare il programma di gestione, a dedicare la giusta attenzione all’animazione culturale per far conoscere e gustare le tante potenzialità custodite nel  territorio. A questo proposito, può risultare utile fare riferimento al magistero di  Vincenzo La Valva, primo presidente. Chi l’ha conosciuto e lo ha visto all’opera è rimasto colpito per la competenza dello scienziato e per la grande umanità. La sua sensibilità trasformava la conoscenza tecnica in feconda testimonianza della rilevanza della relazione convergente tra uomo e paesaggio, da lui trattata con la finezza dell’intellettuale e l’ispirazione del poeta. Si esaltava soprattutto quando aveva la possibilità di narrare il lungo viaggio dell’intricato e intrigante rapporto con le piante fin da quando l’umanità ha scoperto che poteva trarre gratuito nutrimento dal mondo vegetale, trasformandolo in fonte rinnovabile di cibo,  opportunità che ha consentito di raccogliere conoscenze e dati non scritti registrati nella memoria della famiglia umana.

Egli si è interessato del paesaggio mediterraneo, lago di culture nel quale si affacciano etnie, sistemi economici e testimonianze di civiltà, profilo estremamente variegato per la confluenza di tante storie. La Valva ha descritto specificità delle vocazioni ambientali, ha evidenziato, in una prospettiva di lungo periodo, le dialettiche relazioni tra pianura e montagna, dati sui quali ricostruire le dinamiche che hanno contrassegnato i rapporti tra città e campagna. Nell’individuare le modalità di valutazione dell'ambiente e delle sue variabili, egli ha riflettuto sulla relazione tra piante, uomo e paesaggio; rivelativa della sua sensibilità culturale è la descrizione dell'albero collegata al pervadente influsso sulla civiltà mentre ha proposto le sue tesi sulla etnobotanica. Di sicuro interesse sono risultate le considerazioni di natura etnografica e socio-culturale sulle piante, da sempre considerate un legame tra uomo e ciclo, con i suoi semi elementi fecondatori della vita. Egli ha affrontato anche il delicato tema delle conseguenze del disturbo antropico, che non ha demonizzato, ma ne ha descritto la portata per invitare a integrare la gestione. Ha considerato l’uso del territorio descrivendo la lunga simbiosi tra agricoltura e pastorizia, grazie alla quale si è prodotta una significativa diversità biologica e ha contribuito alla crescita della resistenza al disturbo e alla eterogeneità del paesaggio. Una sapiente sinergia ha consentito di utilizzare il territorio per la pastorizia, per l'attività forestale, per l'idrologia e per lo svago, salvaguardando la conservazione dell’ambiente.

Sollecitare questo modo di operare valorizza la funzione del Parco, evitando di percepirlo come ente preminentemente burocratico. La Valva lo ha sempre considerato promotore e animatore di cultura, finalità divenuta preminente soprattutto dopo che l’area si è vista assegnare dall'UNESCO l'ambito, ma impegnativo riconoscimento di patrimonio dell'umanità. Da qui la responsabilità di custodirlo nel modo migliore, di salvaguardare e valorizzare un bene riattualizzandone i valori di fondo per mostrare che non è soltanto una emergenza archeologica o ambientale, ma una realtà vitale per chi ha la sensibilità di rivolgerle delle domande e la pazienza di ascoltare le risposte.

La fortuna di aver potuto godere della sua amicizia nei cinque anni della sua Presidenza del Parco del Cilento, da lui gestita con fine determinazione, facendo acquisire al territorio una rilevanza internazionale della quale gode tuttora, mi consente di immaginare un dialogo e ascoltare le sue risposte a quesiti sul contesto territoriale del Cilento.

Caro presidente, come è iniziata l’avventura che ha portato alla creazione di uno spazio che, lentamente, ha alterato la dimensione naturale trasformandola prima in modo equilibrato e poi con ritmi di pericolosa violenza?

Immaginiamo il paesaggio nel quale operavano gli abitanti della Grotta della Cala o del Riparo del Poggio, presso Camerota, quando vi sbarcavano navi fenicie, oppure il nauseabondo fetore delle paludi nel Vallo di Diano prima delle bonifiche romane. E’ possibile conoscere queste dinamiche esaminando i pollini fossili. Passati migliaia di secoli, i discendenti di Lucy impararono a rapportarsi col Popolo verde per risolvere problemi connessi all’approvvigionamento di cibo. Prateria, foresta, palude, deserto, piante, frutti, foglie, radici - preistorici supermercati – furono oggetto di osservazione a fini alimentari e officinali, persino rituali. Ancora oggi si cita la papagna e l’uso che ne facevano le madri per calmare figli irrequieti perché, in mancanza di asili nido, dovevano tenere a spalla quando lavoravano.

Senza inoltrarci nelle considerazioni religiose verso la Magna Mater e i rituali della Fertilità, come si evolve la conoscenza, favorita in particolare dalla scoperta e dall’uso delle graminacee?

Orzo, segale, miglio o mais e grano stimolarono l’osservazione delle spighe, si procedette a selezionare tentando ibridazioni che determinarono enormi conseguenze per il positivo impatto demografico. Mentre cresceva la popolazione, si compresero i vantaggi dell’impianto del giardino, decantato da tante epopee inneggianti alla Dea dell’Amore, Stella del Mattino e della Sera. Divenne il luogo dove si custodiva l’Albero della Vita. Con questa icona si rinsaldò il legame tra piante e uomo perché ripara, nutre e dà vita nella sua multiforme specificità di frassino sacro a Odino, di quercia sacra a Zeus, di pino di Aleppo sacra per i Fenici, di cedro per gli Ebrei. Si moltiplicarono le leggende e sacerdoti, sciamani-giardinieri coltivarono piante miracolose, capaci di guarire. Nella terra dei Faraoni si cominciarono a piantare gli orti botanici non solo per alberi sacri, erbe officinali e prodotti per l’alimentazione, ma anche per trarne fibre. Foglie, fusti, radici o frutti consentirono di sopravvivere anche nelle aree più impervie: la manioca in Amazzonia, il cotone, la farina estratta da diverse specie di Palme nel Borneo. Con le piante si costruirono tetti, pareti, pavimenti, lance, frecce, corde, cerbottane, zappe, aratri, carri, barche, ami, cesti, piatti, pentole, giare, otri, bicchieri, posate, selle, stuoie, armadi, sedie, tavoli, chitarre, tamburi, flauti, gomme, oli e resine, papiri, libri, collane, anelli, vestiti e statue per stimolare la passione per il bello e far fiorire la civiltà.

Nel periodo compreso tra 10.000 e 5000 anni fa molte civiltà si affacciarono o si portarono verso le sponde del Mediterraneo. Quali le conseguenze?

Si moltiplicarono i centri abitati e, di conseguenza, il bisogno di legno determinando una prima deforestazione di boschi sempreverdi, dominati dal leccio, che cresceva florido lungo le regioni costiere. Pastori-agricoltori-boscaioli utilizzarono con perizia il fuoco per rimodellare il lussureggiante ambiente e diedero inizio alla trasformazione del paesaggio, tuttora in atto. La dinamica evolutiva della vegetazione conferì alle coste un assetto semi-naturale soggetto a crescente antropizzazione, accentuata nel VI secolo dell’era cristiana, quando i monaci Italo-Greci cominciarono a operare dalle nostre parti.

Che dire della presenza di navi orientali nei porti velini o sotto la Porta Marina a Poseidonia?

Evocare questi luoghi significa ammirare i dipinti delle tombe, odorare la rosa di Paestum, ammirare il granato. La Tomba del Tuffatore ripropone alle nostra attenzione tutti questi elementi: maestosi cedri, querce sacre, una palmetta, un frassino consacrato a Poseidone. Il melograno, arbusto probabilmente della Persia, si è diffuso nel bacino del Mediterraneo e da sempre ha esaltato la fecondità della vita senza fine, motivo per cui i fiori sono dipinti sulle lastre delle tombe. Il frutto, plasmato nell’argilla, si trasforma in piccoli oggetti votivi insieme ad altri che sembrano copia delle capsule di papavero, mentre la Donna Fiore, simbolo augurale di fertilità e di abbondanza, conferma la perfetta interazione tra uomo e natura, che trova la sua ultima manifestazione nella venerata statua della Madonna del Granato.

Le città crescono e si espandono. Aumenta il bisogno di spazio, inteso come suolo fertile e aree edificabili. Parallelamente, cresce il bisogno di legno sia per le case che per i mezzi di trasporto, in particolare per quelli marittimi. Il legno è a portata di mano sotto forma di antichi e vetusti boschi di leccio, di querce, di pini, di cedri, di faggi, di abeti. L’umanità, che dalle sue origini aveva contato non più di una decina di milioni di individui, è rapidamente cresciuta. Dopo 8.000 anni di agricoltura, intorno all’anno zero della nostra epoca, la Terra contava più di 300 milioni di individui.

Approdati nella città, l’agricoltore e l’artigiano misero a frutto le conoscenze botaniche continuando osservazioni e sperimentazioni. Plinio il Vecchio può scrivere con orgoglio nella sua Historia Naturalis che «Nemmeno le foreste e le zone ove la natura si presenta nel suo aspetto più selvaggio sono affatto prive di piante officinali: non c’è luogo ove quella Santa Madre di tutte le cose non ne metta a disposizione dell’Uomo, al punto che il deserto stesso diviene fonte di medicinali». Egli beneficiava del lavoro di Teofrasto, botanico che aveva proceduto alla classificazione del mondo vegetale. Alcuni suoi parametri, come la forma delle foglie e il carattere di pianta annuale o perenne, sono ancora oggi adottati. Fu tutto un fiorire di scienziati, come Pelacio Dioscoride o Columella, che descrive la “casa di città”e la villa rustica con la cella olearia e vinaria, i granaria e gli horrea. Il paesaggio dove si lavorava non era molto dissimile dall’attuale con uliveti terrazzati, scintillanti nelle brezze primaverili, con le messi dorate di giugno e gli orti, frutteti, agrumeti, le greggi al pascolo lungo le coste ripetutamente incendiate, allora non un dolo perché si riteneva l’unica gestione eco-compatibile. Il fuoco impediva alla macchia mediterranea di chiudersi attorno ai pascoli nei pressi degli uliveti e dei campi di cereali. Il fuoco serviva a far rispuntare le foglie della Tagliamano, insostituibile pascolo per le mandrie di ovini dopo aver tagliato le lunghe e tenaci foglie per intrecciare corde, dotarsi di attrezzi, rinnovare il giaciglio.

Che dire delle propiziatrici magiche bevande ricavate da piante strane e misteriose come la mandragora?

    Il suo utilizzo, documentato nella letteratura medica, è tramandato dalle superstizioni popolari e dalla cultura magico-esoterica. Presso la corte dei Faraoni si coltivava negli orti botanici. Nel Vecchio Testamento è citata in Genesi XXX, 14. Venne utilizzata dalle due mogli di Giacobbe, le quali credevano combattesse la sterilità. Nel Cantico dei Cantici - VII, 11-14 - si evocano velatamente le sue proprietà afrodisiache per il profumo. Gli Ebrei attribuivano a questa pianta importanza al punto di raffigurarla su alcune monete. Pitagora riteneva che le radici rendessero invisibili. L’infuso di vino e mandragora, detto Mandragorinos, era utilizzato per scopi medici e in alcune feste sacre. I germani preparavano una bevanda di mandragora e vischio per proteggersi dai veleni e stimolare nelle donne la fecondità. Mentre le leggende ricordavano quanto fosse pericoloso raccoglierla per cui si tracciavano cerchi con strumenti di avorio, non di metallo, pronunciando formule magiche mentre si guardava verso Oriente. Ecco perché la Scuola Salernitana raccomandava di raccogliere la mandragora ponendosi sottovento e all’alba. Si riteneva che la potenza della pianta fosse maggiore se raccolta sotto una forca ai piedi dell’impiccato, bagnata da una goccia di sperma emessa dal condannato!                                                          

Gli orti medici e farmaceutici sorti presso ospedali e monasteri?

I religiosi, custodi dei manoscritti antichi e tra i pochi a saper leggere e scrivere, studiavano e tramandavano vecchie ricette accompagnate alle loro osservazioni e ulteriori notizie in erbari figurati. Grazie a loro la botanica divenne sempre più una scienza. Nel XIV e nel XV secolo si radicò anche la funzione didattica degli Orti, detti dei Semplici per indicare i medicamenti tratti dalle piante senza procedere a ulteriori modifiche. Le Scuole di Medicina avevano bisogno di insegnare a riconoscere le piante e le loro virtù terapeutiche, di conseguenza le coltivavano sistematicamente, col passare degli anni nacquero gli Orti Botanici Universitari. Il primo sorse a Pisa ad opera di Luca Ghini nel 1544. Questi escogitò la tecnica di comprimere e essiccare le piante fornendo uno innovativo strumento per procedere alla descrizione degli esemplari raccolti in erbari, libri che facilitavano l’osservazione in ogni stagione. Linneo, grazie a questo materiale, ha descritto non solo la flora della Svezia, suo paese d’origine. Medico, naturalista e esploratore, egli ha usato sistematicamente un metodo di classificazione delle piante e degli animali secondo il genere di appartenenza e introdotto la nomenclatura binomia, scegliendo il fiore come base per individuare i caratteri con cui classificare le piante secondo quattro criteri: numero, forma, proporzione e posizione. Ancora oggi queste raccolte sono utilizzate nella ricerca come supporto a sistemi computerizzati.

Nel Seicento l’Europa sperimenta un periodo di guerre, fame e epidemie, situazione alla quale si cerca di porre riparo sfruttando al massimo il territorio al punto da trasportare a spalla zolle di terra per riempire gli aridi terrazzi dei pendii. Come cambia il paesaggio?

Le colline si arroccano e fanno spazio ai terrazzi, mentre s’infittisce la rete dei tratturi per facilitare le comunicazioni. Il suolo tende a impoverirsi dove la pendenza rende minacciosa l’acqua piovana per l’assenza della primigenia copertura vegetale del manto erboso; ruscelli e torrenti impetuosi rendono difficile governare il regime delle correnti. Intanto, generazioni di uomini continuano a concimare l’ulivo, il fico, farro e grano, scegliendo le colture più adatte al particolare microclima della zona. Anche le greggi sono associate in questa economia primaria, che combatte contro la siccità o la palude, realizzando mirabili opere d’ingegneria. Ma col passare dei decenni anche gli ulivi abbarbicati sui terrazzamenti delle colline devono sperimentare un ennesimo esodo. La insopportabile miseria rende appetibile l’incognita del viaggio per le ricche Americhe o verso le fabbriche sorte a Nord delle Alpi. Campi e terrazzamenti non irrorati dal sudore dell’uomo fanno spazio a nuove  piante. Mutano di nuovo ambiente e clima per adattarsi a parametri evolutivi in rapido mutamento. Prende corpo un processo che, con la speculazione edilizia e la cementificazione, determina un minaccioso inquinamento, collegato all’effetto serra. Gli spazi superstiti sono occupati da piante provenienti da altre terre e questa ibridazione colpisce il nostro immaginario collettivo.

Potrebbe descrivere brevemente il fenomeno?

Mentre le città sembrano assediate dalla spinosa robinia di provenienza americana, che si segnala per la sua forza invasiva, i boschi cambiano composizione e il grigio-bruno dei tronchi e delle foglie morte del periodo invernale diventa più esotico per la crescente presenza di piante sempreverdi, in precedenza confinate in parchi e giardini. Così le palme, importate per abbellimento, risultano concorrenziali di specie indigene. S’introduce una biodiversità in precedenza inimmaginabile anche per l’aumento della temperatura e la diminuzione dei giorni di gelo. Erbe esotiche infestanti attaccano campi e colture, oltre a parassiti provenienti da oltreoceano; tendono a scomparire i papaveri, la gramigna e il fiordaliso. E’ stato calcolato che almeno 520 specie fra insetti e acari, 150 malattie delle piante e 113 piante infestanti sono diventate resistenti a molti dei pesticidi usati per sterminarli; inoltre, sono parecchie le malattie delle piante alle quali i vari fungicidi non riescono a porre rimedio. Tutto ciò condiziona il processo evolutivo con ritmi sempre più accelerati. L’uso di diserbanti e i loro residui per pressione selettiva determinano una progressiva resistenza nelle erbe infestanti. Ma la natura non rimane inerme, lentamente ma tenacemente ripara i danni dell’uomo producendo biodiversità. E’ il caso della bellissima Genista cilentina, neo-endemismo puntiforme scoperta da poco e nota solo presso Marina di Ascea e una stazione presso Cefalù in Sicilia, specie a rischio di estinzione perché l’habitat é oggetto di ripetuti e reiterati incendi all’interno del Parco.

Una ultima domanda: la storia del platano a Velia?

 Nei dintorni della città di Parmenide resiste una delle ultime stazioni del meridione d’Italia in cui vive, spontaneamente, il Platanus orientalis; bisogna andare nella Valle dei Templi ad Agrigento per trovarne un’altra. Entrambe sono vicine a città di origine greca. Il platano per i Greci era sacro; perciò, é lecito ritenere che siano stati loro a portarlo nelle loro migrazioni. E’ una pianta pienamente integrata nel nostro sistema naturale. Non esistono più i platani che, con olmi e pioppi, facevano ombra nelle piazze; i maestosi alberi di roverella, di noce, di gelso, che proteggevano le abitazioni nelle campagne, sono stati sostituiti da esotiche conifere dai diafani colori. La mancanza di ombra e di frescura, che per millenni ha infuso pace e serenità, allontana sempre più dall’agorà e dalla pacata osservazione e discussione. Il nostro immaginario collettivo, la memoria, la tradizione popolare, si vanno dissolvendo e sfumando, rischiano di scomparire se le nuove generazioni, distratte dal vortice dei media e da una cultura preconfezionata, imposta e non partecipata, genera la pigrizia della ragione e la fretta per sperimentare sempre più cose. Forse maggiore attenzione nei confronti del Parco potrebbe aiutare a recuperare la radici di una identità da sperimentare nella concretezza di un quotidiano possibile in aree protette, intese non solo come esperienza museale di conservazione, ma come incontro con la natura per apprezzarne le risorse. Lo scambio di conoscenze e di valori fa di questa insostituibile agorà una esperienza feconda di bello per arricchire veramente il patrimonio che i cilentani sono chiamati a custodire per l’intera umanità.

                                                                                    

Lascia il tuo commento
commenti
Le più commentate
Le più lette