Omaggiare il paese di un pannello, splendido sia per fattura che per intimo significato, è stato per Virginio Quarta quasi un ringraziamento dell’anima

Il sogno dipinto

L’artista Virginio Quarta dona un pannello ceramico a Vietri sul Mare omaggiando Carmine Carrera.

Cultura
Cilento sabato 25 luglio 2020
di Vito Pinto
Immagine non disponibile
Virginio Quarta sullo sfondo del pannello donato a Vietri © Unico

È un omaggio di Virginio Quarta, artista che sa dipingere il sogno, quel pannello posto, da qualche giorno, nel corso principale di Vietri sul Mare, a ridosso della mitica “Piazzetta”, tradizionale luogo di giochi di bambini e riposo di anziani. È un omaggio all’operosità di questo territorio che ha saputo costruirsi una civiltà fatta di argilla. A rappresentare i cinque secoli di storia dell’artigianato figulino vietrese, il maestro Quarta ha scelto come tema il vasaio, un mestiere antico, affascinante, difficile, che richiama alla mente la creazione dell’uomo nell’ultimo giorno di “lavoro” di Dio, prima del riposo domenicale.

Scriveva Irene Kowaliska nelle pagine del suo diario vietrese: «I popoli antichi parlavano del lavoro del torniante come del più bello e difficile fra quelli artigianali». Quanta verità!

E sono immagini di continuità quelle tracciate da Quarta che dal “vasaio” di Emilio Cecchi trasmigra al vasaio Carmine Carrera, certamente simbolo di operosità, di inventiva, di dedizione al lavoro, di riflessione per la ricerca di una forma ceramica che lui voleva sempre più perfetta. E sono oltre 150 le forme da lui tirate al tornio, giorno dopo giorno, in una continuità mai ripetitiva. Un lavoro uguale da millenni, lo stesso che veniva praticato dai figuli di Cnosso, di Corinto, di Samo, della Magna Grecia e dell’Asia Minore. Ma Carmine Carrera, “Ninuccio” come lo chiamavano in famiglia e gli amici, era l’erede di una tradizione, anche familiare, e nel suo costrutto di vasaio aveva la costante del passato, l’eredità storica del modellare l’argilla e la forza dell’arte nell’innovarla. Affabulazioni di ritualità etrusca, greca, romana, di silenzi di botteghe ove lo sciabordio delle mani sull’argilla era suono di creazione di forme eleganti, slanciate, colli lunghi a richiamo di Modigliani o forme agili di uccelli a volte soltanto immaginifici.

L’angolo dove aveva sistemato il suo tornio, contiguo alla finestra a dominio della Costa d’Amalfi, era la nicchia delle creazioni, il riposto del sogno che si realizzava ogni volta che un panetto di argilla veniva posto sulla piccola ruota, bagnato dall’acqua, pronto ad arrendersi alle mani del vasaio, di “Ninuccio”, e prendere la sua forma.

Scriveva Emilio Cecchi ne “Il vasaio”, capolavoro di letteratura per il quale ha usato parole scelte e rare osservando il lavoro di Vincenzo Solimene padre, vasaio vietrese alla fabbrica Vincenzo Pinto: «La ruota frullava così silenziosa che della presenza del vasaio, seduto al suo lavoro, m’accorsi soltanto dopo un po’ ch’ero entrato». E aggiungeva: «Senza fretta e senza tregua faceva andare il pedale; e bagnando la sinistra nel secchio dell’acqua, aspergeva il pane d’argilla sulla ruota. In disparte, guardandolo, sentii a un certo momento un freddolino giù pel groppone. Era come a volte che, ascoltando un grande pianista o violinista, ci viene una specie di brivido». Sensazioni comuni a chi, con animo umile e mite, faceva visita alla nascosta bottega delle mani di “Ninuccio”.

Quando era al tornio Carmine Carrera, appassionato di ciclismo e tifoso del Napoli, ascoltava musica classica o fischiettava. La mente va ancora ad Emilio Cecchi: «Non vedevo la mano, ch’era tuffata dentro la creta. E la creta, scagliata dalla ruota, saliva intorno al braccio del vasaio, in forma d’un enorme calice di fiore… E in quell’avvicendarsi e perdersi di linee e movimenti, a volte sembrava balenare la curva d’un seno, lo scorcio d’una guancia».

Poi, all’improvviso, “Ninuccio” taceva, accostava l’orecchio all’argilla che, accarezzata dalle sapienti mani, cresceva, si accosciava, rinasceva come araba fenice dalla sua apparente caduta: in quel momento il vasaio ascoltava l’umida terra che suggeriva la forma cui indirizzare le mani e il cuore… «come se un universo visibile, che aspettava d’essere creato, cercasse di sprigionarsi da quel fluire di tempo misurato dal pedale».

Nel suo laboratorio con vista su “I due Fratelli”, posti a dominio di un mare di miti e leggende, giorno dopo giorno, forma dopo forma, Carrera elaborava il suo vocabolario di civiltà ceramica vietrese. Un patrimonio per questa cittadina posta alle porte di una costiera montuosamente marina!

E così il quotidiano si fa storia di un popolo nel quale da oltre trent’anni Virginio Quarta si immerge con la grandezza umile dei veri artisti per ascoltare, scambiare idee con il maestro Salvatore Autuori, imparare le mille sfumature di un’arte da bottega che non è pittura, non è scultura, ma è solo gioia per l’uomo. La ceramica o la si ama o niente: non ammette mezze misure, neanche nella sua elaborazione dove non ci possono essere ripensamenti. E Virginio Quarta ama quest’arte, la sente a lui congenita, dialoga con smalti, colori e terrecotte il cui rosso per lui è cromia integrante. Per questo ha voluto regalare l’emblematico pannello a Vietri e ai suoi cittadini, poco attenti e poco coscienti del possesso di un patrimonio antico, risorsa economica e culturale di una comunità. E andrebbero onorati quegli artigiani e quegli artisti che hanno non poco contribuito alla crescita di questa particolare “civiltà” dove la solarità mediterranea esprime tutto il suo splendore, la sua luminosità con la forza degli smalti, dei colori, delle cristalline.

Omaggiare il paese di un pannello, splendido sia per fattura che per intimo significato, è stato per Virginio Quarta quasi un ringraziamento dell’anima; rappresentare nel contempo Carmine Carrera, uomo che sapeva ascoltare l’argilla con sensibilità e amore, è senza dubbi un valore aggiunto non solo all’opera, ma anche alla donazione. Una lezione di stile, quella di Virginio Quarta, che si ritaglia uno spazio di cielo tra i tanti conquistatori che di volta in volta calano o sono chiamati in questo paese.

Era un giorno freddo quel 27 febbraio del 1994, quando la ruota del tornio di Carmine Carrera si fermò per sempre: il vasaio aveva smesso la sua ricerca della forma, l‘eterno divenire del suo essere. Alla mente ritornano le sue parole: «Sono stato povero, però, se non avessi fatto questo lavoro, avrei pagato per poterlo fare». Grandezza di un animo semplice, che nel silenzio della bottega costruiva, con sapiente umiltà, un linguaggio per le future generazioni. Ora a Vietri restano due tornianti: Raffaele Apicella, “Filuccio”, e Antonio D’Acunto che di Carrera fu allievo. Troppo pochi per un paese di antica tradizione ceramica. Sarebbe ora che il sogno di Carrera divenisse realtà: creare una scuola per tornianti.


Vito Pinto

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