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    Ambiente e Cultura Mediterranea

    LA MEDITERRANEITÀ DELLA MAGNA GRECIA: EREDITÀ PERENNE

    Di Redazione4 Giugno 202523 Min Lettura130 VisiteNessun commento
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    Di Lorenza Rocco Carbone, Saggista, direttore della Rassegna bimestrale di cultura “Silarus”

    La civiltà occidentale nasce sulle rive del Mediterraneo antico, fruendo degli apporti della Grecia, di Roma e del Cristianesimo.

    Con felice sintesi, Mario Mello, nell’illuminante testo “Alle radici della civiltà occidentale” sottolinea: “Il mare Mediterraneo ha consentito l’osmosi tra le antiche civiltà che fiorirono sulle sue sponde ed ha favorito la formazione della civiltà a cui noi apparteniamo, ne è il padre”.

    Da sempre, infatti, le acque del Mediterraneo hanno mostrato di unire più che dividere le terre dei tre continenti, da esso bagnate. Tra Asia, Europa e Africa il Mediterraneo ha favorito liberi scambi, conoscenza ed osmosi, divenendo fucina operosa, nel cammino spirituale dell’Umanità.

    La Mediterraneità impregna la civiltà occidentale nei suoi cardini, il mondo greco, il mondo romano e quello ebraico-cristiano. Fu in Grecia che l’uomo superò il mito e conquistò il logos, il libero pensiero e il senso della propria responsabilità, dando inizio alla ricerca razionale e al sapere critico. In Grecia la democrazia fu realtà vissuta e oggetto di dibattito sulla dignità e i diritti inalienabili di ogni persona.

    Roma, impregnandosi delle conquiste spirituali della Grecia, le tradusse nella concretezza del diritto, in norme chiare a garantire l’aspirazione naturale dell’uomo a vivere in società, tutelando la libertà di ogni cittadino, nello spirito del terenziano: “Homo sum…”.

    Terzo cardine, il cristianesimo che, innestandosi sulla classicità, trovò l’humus ideale per l’evoluzione dell’uomo, imponendo come comandamenti primari, l’Amore e la solidarietà.

    Nel quadro della civiltà greca, grande rilievo ebbero le regioni dell’Italia meridionale che, bene a ragione, furono chiamate Megale Hellas, Magna Grecia, non solo per il predominio territoriale, ma per l’altezza culturale che il Mezzogiorno raggiunse.

    Tra l’VIII e il VI secolo, straordinaria fu l’esperienza dei greci, in tutto il Mediterraneo. Nuove pòleis sorsero dalle coste della Francia meridionale (Marsiglia) e quelle dell’Africa (Cirene), ma i principali insediamenti interessarono, l’Italia meridionale e la Sicilia, una vera e propria epopea, pittorescamente definita il “Far West” dei greci.

    Essi introdussero nelle nuove terre l’alfabeto e nuove forme politico-organizzative incentrate sulla polis di tipo greco, nonché forme di convivenza con le popolazioni locali, con le quali si fusero, dando vita ad una nuova civiltà italiota e magno-greca, caratterizzata non solo da superbe manifestazioni d’arte (templi e teatri), ma anche dalla fioritura di un originale pensiero filosofico-religioso legato alle scuole di Pitagora e di Senofane, rispettivamente a Crotone e ad Elea.

    La Magna Grecia occupò uno spazio nobile in seno alla civiltà che noi chiamiamo mediterranea, perché in essa trovarono sintesi le molte sviluppatesi nel corso dei millenni sulle sponde del mare Mediterraneo.

    Se un tempo veniva considerato solo l’ethnos greco, oggi prevale la considerazione che senza gli apporti delle popolazioni locali, Eredità perenne mediterranee ed italiche, non avremmo avuto la civiltà italiota, magno-greca con caratteri propri, diversi da quelli greci, in primis nella mediazione culturale, in uno scambio di intrecci e di influenze, in cui è difficile discernere il dare e il ricevere e che produssero risultati fondamentali nelle scienze matematiche, fisiche e mediche, come nella filosofia, nella letteratura, nella legislazione, nelle dottrine religiose ed etiche, sia di ispirazione pitagorica che misterica e in ogni forma d’arte, dall’architettura alla scultura, alla pittura, alla ceramica.

    Se la tendenza delle colonie all’autonomia impedì la realizzazione di un’unità politica, unitario fu il processo culturale, al quale parteciparono una pluralità di voci e mostrarono la loro forza creatrice nelle espressioni letterarie, architettoniche, scultoree, urbanistiche, scientifiche. E ciò avvenne non solo nei centri maggiori, Taranto, Elea, Crotone, Locri, Reggio, ma ovunque, dall’alta Campania allo stretto di Sicilia, protraendosi fino al Medio Evo.

    La più antica voce che ci giunge dalla Magna Grecia è quella contenuta nei tre versi incisi su una piccola coppa, uno skiphos della fine dell’VIII secolo a.C., rinvenuto nel 1954 nella necropoli di San Montano nell’isola d’Ischia:

    Dolce a bersi, certo era la coppa di Nestore: ma chi da questa beva, subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona.

    Sono le parole di un grande anonimo che, mentre si riannoda all’epos omerico 4. Il, XI, 624 ss. e all’Oriente Mediterraneo, inaugura un genere nuovo, di grande avvenire, l’epigramma.

    Gli storici moderni ritengono che il fondamento dell’identità europea e occidentale risieda nell’antica civiltà mediterranea, caratterizzata dalla centralità dell’uomo libero, orientato dalla ragione, in un cammino incessante di ricerca e di sviluppo del pensiero critico.

    L’eredità della civiltà magno-greca non può ridursi alla sopravvivenza e alla considerazione dei monumenti, dei vasi, dei manufatti; era innanzitutto spirituale, interiore.

    Il pregio e l’orgoglio dei templi di Paestum, l’antica Poseidonia, non è solo nell’integrità materiale ma nella testimonianza del livello che le poleis della Magna Grecia avevano raggiunto nella scienza matematica e architettonica, nella capacità di piegare la forza di gravità a valori d’arte, conferendo armonia e misura a enormi blocchi di pietra, quasi infondendo un’anima.

    A Giuseppe Ungaretti quei templi apparvero simili a terzine di Dante, una musica per sempre imprigionata in una geometria.

    La conquista romana del Mezzogiorno d’Italia e il progressivo prevalere in esso della lingua latina non cancellarono l’identità dei vinti e la loro abitudine a meditare, a trarre sintesi innovative ed originali ed anche se molti italioti abbandonarono le terre natie per cercare fortuna a Roma, divenuta capitale del Mediterraneo.

    Livio Andronico giunto da Taranto come prigioniero di guerra tradusse in latino l’Odissea, il più mediterraneo dei poemi omerici, così ricco di viaggi, di incontri, di avventure; dalla greca e italica Campania giunse, a Roma, Nevio; da Rudiæ, Q. Ennio, poeta nazionale con il famoso verso:

    Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini.

    Ricchissimo è stato l’apporto della Magna Grecia alla formazione e allo sviluppo della civiltà mediterranea, destinata a lasciare tracce indelebili alle future generazioni per il patrimonio spirituale, che hanno costituito e tramandato.

    La letteratura e il folclore attestano nei paesaggi, negli stati d’animo, nelle sensazioni, nei colori, palpiti che solo i mediterranei possono sentire e comprendere. Lo testimoniano leggende e miti fioriti nell’antica Poseidonia, la Paestum dei romani o a Elea-Velia come dire le città più famose, ove natura, arte, archeologia, filosofia, “scientiarum scientia”, medicina raggiunsero vette straordinarie.

    L’orgoglio dell’appartenenza, l’attaccamento alle radici, ai luoghi, divenuti dell’anima, ha ispirato ieri, come oggi, la poesia.

    Pensiamo ai maggiori poeti dell’Italia del Sud, dal siciliano Quasimodo con la sua terra ricca di miti e di misteri, al salernitano Gatto, che fa dei colori della natura una categoria della sensibilità, ai lucani Scotellaro e Sinisgalli e al loro atavico mondo contadino. Soffermiamoci sul poeta campano Italo Rocco, cantore della solarità mediterranea che, innamorato della Magna Grecia, come scrive in un recente saggio Alberto Granese, accademico e critico letterario, elegge a polo ispirativo della sua poesia Paestum, con la stupenda scenografia dei suoi templi, intorno ai quali fioriscono roseti e crescono uliveti, con la varietà stilistica delle loro colonne, tra cui si sono svolti enigmatici e antichissimi riti, con le acque lustrali del fiume Sele, il «Silarus», evocato nella rivista da lui fondata, abbracciate dal Tirreno alla fine del loro corso sinuoso, con le donne simili a mitiche divinità elleniche delle sue liriche:

    Un giovane roseto fiorisce

    davanti al tempio di Nettuno

    e sorride

    nella sera di primavera.

    Alti sul gambo i bocciuoli

    aprono labbra di corallo

    e dondolano al vento.

    Dal mare il sole ammicca

    e trasale con guizzi di gioia.

    Una fanciulla

    occhi neri di terra pestana

    offre rose

    e pare che riviva il rito

    tra le colonne del Tempio.

    Italo Rocco, Un giovane roseto fiorisce da “Il Canto dell’Umanità”, La Prora, Milano, 1972, p. 78, Vol. I.

    Nata al fonte di Capodifiume

    e cresciuta al mediterraneo sole

    vesti dell’incanto della bellezza

    o rosa di Paestum.

    Sullo slanciato tuo stelo si accende

    la grazia della dischiusa corolla

    ed inondi la terra di letizia.

    Italo Rocco, Nata al fonte di Capodifiume da “Il Canto dell’Umanità”, Vol. II, p. 37, Valsele Tipografica, Mater Domini (AV), 1995, P. 37.

    Polloni di castagni le fanciulle

    ovale il volto

    neri gli occhi

    pugno la vita

    danzano, camminando sulla punta dei piedi

    fasciati di antiche cioce.

    Allo sguardo del sole latino

    per le aspre colline in fiore

    disegnano con ombra vagante

    immagini di greca bellezza

    ancora viva nell’interno del Sud.

    Italo Rocco, Non so se conosci il Paese da “Il Canto dell’Umanità”, Vol. I, op. cit. p. 191.

    Impasto di Terra e di Sole

    o donna del Mediterraneo

    è il tuo corpo di antica dea.

    Invano il tempo

    scalpella su di te

    la legge della corruzione

    La forza delle more pupille

    dilunga la tua bellezza

    ai confini dell’umano

    Eredità perenne

    e la poesia ne perpetua il canto.

    Italo Rocco, Impasto di Terra e di Sole da “Il Canto dell’Umanità”

    Nello splendore di greca bellezza

    il brunito colonnato del tempio

    svaria nel gioco del sole.

    Allo schiudere le foglie l’acanto

    ferisce l’aria d’ebbra dolcezza.

    Italo Rocco, Nello splendore da “Il Canto dell’Umanità”,

    La letteratura, non vacanza dello spirito, ma forma privilegiata di conoscenza, anche sul versante della narrativa, trae ispirazione dalla civiltà della Magna Grecia, in forza di un’eredità perenne e di uno scenario unico di natura e arte. La “Tomba del tuffatore” (480-470 a.C.), il monumento più famoso della Poseidonia classica con la raffigurazione sulla lastra di copertura della cassa di un giovane corpo nudo, che si lancia nell’aria in direzione di uno specchio d’acqua sottostante – ovvero il tuffo più famoso ed enigmatico della storia – ispira la creatività di Marcello Scafidi.

    Campione di Umanesimo scientifico, coniugando la professione di odontoiatra con la passione per l’archeologia, Scafidi si fa dono con un giallo storico, tra conoscenza e fantasia, tra storia e invenzione, dal titolo affascinante e significativo: “Tra il crepuscolo e l’alba”

    Alle lunghe ombre del crepuscolo e del mistero segue il chiarore dell’alba a far luce sulla verità. Ed è il lasso di tempo, in cui si svolge la vicenda misteriosa, ambientata tra Poseidonia ed Elea-Velia. Luoghi geografici, diventati per l’autore, luoghi dell’anima.

    Egli, infatti, nativo di Napoli, la mitica Partenope, stabilisce poi la residenza nella terra del mito, ad Agropoli, vicinissima a Poseidonia, non lontana da Elea-Velia.

    Se il mito, trasposizione e trasfigurazione della realtà, lo affascina, cresce negli anni, l’interesse per i Beni culturali, per i monumenti, per le opere d’arte, testimonianza di un passato, che vive e rivive, che ha plasmato la nostra civiltà.

    Nel 2014, si laurea con lode in Scienze dei Beni Culturali con la tesi sperimentale: “Antichità romane. Analisi dentaria dei reperti antropologici della necropoli di San Marco di Castellabate”. Nel 2017 pubblica: “La scienza odontoiatrica in età romana”. Il suo sapere, non da turris eburnea, è animato dal desiderio di diffondere e di comunicare le sue conoscenze agli altri.

    Nel 2024, la pubblicazione del romanzo, in cui la vena narrativa e affabulatoria si nutrono della cultura magnogreca, della sua mediterraneità ed eredità.

    Non solo, dell’orgoglio dell’appartenenza, che traspare anche nelle descrizioni paesaggistiche, che fondono natura e arte nella commistione di colori e profumi. Di fronte alla bellezza, la tensione narrativa si stempera anche nei momenti cruciali. Ne Il ritrovamento del corpo leggiamo: Il profumo inebriante delle rose di Paestum si univa a quello del mare, portato dal vento leggero, che spirava da Ovest

    L’incipit del romanzo è “Il ritrovamento” della tomba del tuffatore nel 1968.

    Vittorio Stasi, un restauratore innamorato del proprio lavoro, mentre si dirigeva in autobus al Museo di Paestum per iniziare la giornata lavorativa, in località “Tempa del Prete”, fu attratto da una ruspa che scavando nel terreno sottostante, stava portando alla luce con una pala meccanica, una tomba a cassa. Vittorio prontamente intimò al conducente di fermarsi e riuscì a bloccare l’operaio.

    Dopo poche ore, la squadra di pronto intervento per il recupero di reperti archeologici del museo di Paestum, diretta dal prof. Mario Napoli, si accingeva ad aprire la tomba, rimuovendo la lastra di copertura. Ecco apparire i resti mortali di un giovane uomo e un corredo funebre composto da un vaso dipinto, due beccucci unguentari in alabastro, frammenti di un carapace di tartaruga, cassa di risonanza di uno strumento musicale, una lyra.

    Nelle pareti interne del sepolcro erano dipinte le scene di un convivio, otto uomini sdraiati in coppia su triclini e due uomini soli; uno di questi reggeva una lyra fatta con un carapace di tartaruga – come quella appartenuta al defunto – nell’altra mano stringeva un uovo, simbolo di resurrezione.

    Una scena misteriosa, diversa da tutte quelle trovate nella necropoli di Poseidonia era raffigurata sulla superficie interna della lastra di copertura: un giovane uomo che si lanciava verso uno specchio d’acqua sottostante. Un’immagine vibrante che ha attraversato i secoli, conservando intatta la sua suggestione.

    Quale il segreto di quel corpo atletico che si lancia dal trampolino? Quale il significato della raffigurazione, unica nella pittura greca antica? Chi era il giovane protagonista del tuffo? Quale il significato del tuffo, quale, dello specchio d’acqua, verso il quale si lanciava?

    Molteplici gli interrogativi. La risposta è nella storia narrata che, ricca di colpi di scena tra la scoperta del cadavere, spostamenti tra Poseidonia ed Elea, agguati, furti, aggressioni immerge nella pagina il lettore, tenendolo con il fiato sospeso fino al processo e a una confessione…

    Tra la necropoli, l’agorà, l’acropoli, il porto, in un clima di sospetti, si svolge la vicenda, che ha per protagonisti tre medici pitagorici: Simo, Atamante, Fedone che, in quanto adepti del grande Pitagora, sono malvisti in città.

    Seguaci della scuola medica Eleatica si dirigono ad Elea-Velia, alla ricerca di una risposta alla morte di Batilao: naturale o provocata? E da chi? La verità dietro un paravento. Cosa è vero, cosa è falso? Confidano nell’incontro con Parmenide, al quale recano un reperto anatomico, un frammento del fegato di Batilao da analizzare. Purtroppo, l’agguato, il furto, l’aggressione coinvolgono anche il filosofo, ferito come Simo e Fedone, mentre Atamante sparisce misteriosamente.

    In un’atmosfera di lotte, di ipocrisie, di violenza, di ostilità contro i pitagorici per escluderli dal governo della città, viene istruito un processo con accuse e calunnie. E tutto sembra favorire la prepotenza degli avversari. Il finale a sorpresa… Atena accoglie le preghiere di Simo e Fedone…

    I libri non si raccontano, si leggono. Esistono in quanto vengano letti. Il lettore, secondo la sua sensibilità, il suo vissuto troverà tanto altro nel testo, magari pervenendo alla fusione di orizzonti, auspicata da Gadamer e diventando coautore di Marcello Scafidi, orgoglioso e sapiente figlio della Magna Grecia, che fa rivivere nelle pagine del romanzo con lo splendido, patrimonio di arte e pensiero.

    Il testo è fruibile sotto ogni angolazione, per la ricchezza dei contenuti, per l’eleganza dell’eloquio, per lo stile fluido e accattivante, per lo stimolo ad ulteriori approfondimenti.

    “Tra il crepuscolo e l’alba”, storia tra eros e thanatos, tramata di tutti i sentimenti che albergano nel “guazzabuglio” del cuore, oltre alla valenza culturale, possiede una specifica peculiarità in quanto ci rafforza nella consapevolezza e nell’orgoglio delle nostre radici.

    Nel 1998 gli insediamenti archeologici di Paestum e Velia furono inseriti nel patrimonio mondiale dell’umanità, protetto dall’Unesco. Nel giro di alcuni anni sono diventati un solo corpo, un unicum.

    La necessità di procedere in tal senso, sin dal 2020 fu caldeggiata e promossa dal senatore Alfonso Andria, membro del Cda: Entrambi rientrano nel medesimo sito Unesco. Velia è uno straordinario sito archeologico, paesaggistico e culturale, noto anche per essere stato sede della Scuola Eleatica di Parmenide;

    Paestum rappresenta una sorta di crocevia per la ricerca delle origini come tema centrale della filosofia moderna, da Giambattista Vico in poi Paestum-Cilento, Elea-Velia, un solo brand per ricostruire il pensiero occidentale dalle origini.

    Giovanni Musella, napoletano di nascita, cilentano d’adozione, di fronte ai ruderi di Velia, l’antica Elea, l’antichissima Yele, soggiogato dal fascino incomparabile dei luoghi, compie sulle ali della fantasia un viaggio a ritroso nel tempo, nel IV secolo a. C., facendo rivivere la città dimenticata e sepolta sotto i detriti.

    Come Marcello Scaffidi, egli si fa dono con un romanzo: “Il pozzo di Elea” Giovanni Musella, Il pozzo d’Elea, Massa Editore, 1998. Eloquentemente nell’introduzione scrive: “Le pietre parlano – le pietre ricordano”. La Magna Grecia sopravvive nei luoghi, nelle vestigia imperiture, nelle tracce indelebili che ha lasciato, ma vive, soprattutto dentro di noi, profondamente interiorizzata. La cultura greca ha segnato nel tempo le generazioni future. Scrive Lord Byron: “Il passato è il migliore profeta del futuro”. La civiltà occidentale affonda le sue radici nelle poleis della Megale Ellas, Magna Grecia, che gettarono le fondamenta del modo di vivere e di pensare del mondo attuale.

    Basti considerare il contributo apportato nell’architettura dai templi di Paestum, Agrigento, Segesta, dalla Porta Rosa di Elea, costituita da un grande arco perfettamente conservato, il primo esempio di architettura occidentale, che sfrutta la struttura dell’arco a cuneo. E, lungo la strada, che conduce alla Porta Rosa, è ancora lì ad attenderci il bòthros, il pozzo di Elea, intorno al quale si dipana la vicenda del romanzo di Musella. Se è vero che solo salendo sulle spalle degli antichi potremmo proiettarci verso l’avvenire, le antiche città possono aiutarci a progettare le città del futuro a misura e a dimensione di uomo.

    Un’eredità imprescindibile hanno lasciato all’urbanistica Paestum e Siracusa, all’ingegneria navale Elea-Velia, che non solo l’insegnò ai romani, ma essi da Velia acquistarono le loro prime navi. La Magna Grecia che per otto secoli interessò tutta la fascia costiera dell’Italia Meridionale, costituisce il pilastro del mondo occidentale in tutti i campi: nell’arte, nella scultura, nella pittura degli artisti di Paestum e di Reggio, nelle scienze (Archimede e Pitagora), nel diritto (Zeleuco di Locri), nella salute: la dieta mediterranea (il Museo, a Pioppi); nello sport (i campioni olimpici di Crotone), nella raffinatezza di vita di Sibari (proverbiali il lusso e l’eleganza), nella lotta per l’uguaglianza tra i sessi delle donne di Locri.

    Che dire del contributo offerto alla politica dall’ordinamento pitagorico di Crotone e dalle vicende più o meno democratiche, delle città-stato.

    Dulcis in fundo, l’influsso esercitato sulla speculazione dalla scuola Eleatica o Parmenidea che, fondata ad Elea da Senofane di Colofone, ebbe in Parmenide il più illustre rappresentante e in Zenone, il filosofo delle aporie (sempre di Elea), il più illustre discepolo.

    Chi tra i ricordi o… incubi scolastici non ricorda il famoso argomento di Achille piè veloce che non raggiunge la tartaruga? Sulle aporie zenoniane si è esercitato l’acume e la sottigliezza di filologi, filosofi e matematici, fino ai giorni nostri. Ad Elea i saggi furono maestri, ad un tempo, di pensiero e di scienza medica: filosofia e medicina, in quell’epoca andavano di pari passo. L’antica scuola Eleatica di Parmenide e Zenone fu la profezia del genio filosofico di Vico-De Sanctis, di Benedetto Croce…, giungendo al prestigioso speculativo degli Studi filosofici di via Monte di Dio, a Napoli.

    Ritornando ai filosofi di Elea, essi presero posizione contro il pitagorismo, rispetto al quale esercitarono un influsso senz’altro maggiore. Anche se il pitagorismo, che si rivolgeva alla vita pratica e al metodo sperimentale, rispecchia maggiormente il carattere della mente italica. Come non pensare alle tracce lasciate nella cultura popolare, nelle credenze cabalistiche, che perpetuano la fede nel numero, nella storia di fantasmi e di reincarnazione, retaggio della teoria della metempsicosi? Dalla suprema legge pitagorica del reale, dall’armonia degli opposti, scaturisce forse la caratteristica filosofia delle genti del Sud che, consapevoli dell’alterno gioco della vita, del quale sono vittime, di fronte a cataclismi naturali, a calamità umane, a problemi sempre procrasti-nati di disoccupazione e sottoccupazione, non perdono l’ultimo barlume di speranza, con la forza e il coraggio di volgere le traversie in opportunità.

    E, dietro una maschera ilare di ironia, di salacità, nascondono al fondo della loro anima, un’atavica malinconia. Il romanzo di Musella si sostanzia del contesto storico e del substrato speculativo descritto.

    Rocco Caporale, nella prefazione, acutamente sottolinea “la fedeltà al dato storico che si intreccia alla fantasia”. Per dirla con Manzoni: “lo scrittore deve profittare della storia, senza mettersi a farle concorrenza”.

    Musella, prestato dai numeri (già direttore di banca) alla letteratura (oggi editore, non a caso di Kairos), immergendoci nella pagina, ci coinvolge e cattura, offrendoci uno spaccato della vita di Elea nel IV secolo.

    Le pietre si animano e la città sepolta risorge. Si leva il “ronzio della vita”, come scrive Michele Prisco nella Napoli della “Dama di piazza”, tra ambulanti, commercianti, banchieri, saggi, filosofi, medici, pederasti, tiranni, ancelle, locandiere, forestieri, che approdano, non si sa perché e… fanciulle bellissime. Proverbiale la beltà delle donne di Elea, il cui eterno femminino era così universalmente apprezzato che quando la città cadde sotto il dominio di Roma, i romani estimatori di muliebri beltà, da Velia prendevano le sacerdotesse di Cerere, che dovevano essere greche…

    Ed Agido, in questo romanzo, che si divide equamente tra le lusinghe di Afrodite e i fremiti di Ares, è l’incarnazione stessa della bellezza, l’aurea beltate onde ebbero ristoro unico ai mali le nate a vaneggiar menti mortali, avrebbe cantato Ugo Foscolo, innamorato di classicità: “Ebbi in quel mar la culla”.

    Musella trasferisce nella pagina la sua ammirazione per Elea e riesce a comunicarla al lettore. Egli fa rivivere davanti ai nostri occhi l’immagine dell’antica Yele, il primo nome che ebbe la città, fondata verso il 540 a.C. da coloni focesi, che avevano lasciato la patria per sottrarsi all’assedio dell’esercito di Ciro, rifugiandosi in Corsica, dove avevano fondato Alalia, mentre già erano sorte Pithecusa (Ischia), Cuma, Palepoli (l’originario insediamento di Partenope), Sibari, Crotone. Poi, con l’aiuto dei reggini avevano fondato Yele, presso la fonte della ninfa, vicino al Palistro, il fiume di Elea, non lontano dall’Alento verso Vallo, donde il nome di Cilento: Cis-Alentum.

    La tradizione narra che fu proprio un posidoniate ad indicare la fonte di Yele, a circa quaranta chilometri da Poseidonia. Il nome Yele denota l’origine italica; la forma Elea appare per la prima volta, in Platone, la forma Velia in Plinio. Storia e natura affascinano Musella, che non tralascia occasione per descrivere la sconvolgente bellezza, la posizione orografica di Elea, tra il golfo di Policastro e quello di Salerno (Sinus Pestanus), incantato dalla bellezza del mare, che descrive “luccicante dei riflessi di un sole accecante e caldissimo” e dal trionfo della natura. Un paradiso naturale, che spiega il successo plurisecolare della città. Non a caso, sotto i romani, fu luogo di villeggiatura. Vi aveva una villa Trebazio, che vi ricevette più volte la visita di Cicerone, e qui avvenne un colloquio drammatico tra questi e Bruto. Il celebre medico di Augusto, Antonio Musa, consigliava Velia ad Orazio per una cura balneare.

    Musella ricrea e far rivivere l’atmosfera dell’antica città.

    Si animano le due grandi aree in cui era divisa la città in epoca storica: il quartiere meridionale, ovvero il centro residenziale politico, che gravitava intorno all’agorà, e quello settentrionale più piccolo e modesto, separato dal crinale delle colline, dove scorrevano le mura, che dividevano le due parti della città e dov’era l’acropoli con il tempio di Atena, la dea protettrice della città, alla Taranto, ad opera di Filolao e nascosti in un luogo segreto. Ambitissimi, in quanto depositari di ogni forma di conoscenza, dei segreti del futuro, dell’immortalità. Lo scopo del viaggio, che il giovane scoprirà gradualmente, è di acquistare dall’interno quante più informazioni possibili sulla situazione politica militare di Elea.

    Il racconto, che coniuga Amore e Morte, Eros e Thanatos, intrecciati nel tessuto variegato e complesso della vita, conferma il mistero insondabile dell’esistenza; le ragioni narrative di Musella pongono al centro l’uomo, i suoi problemi, il suo essere morale e sociale.

    Nel romanzo indimenticabile è la folla dei personaggi, tutti ben caratterizzati: il tiranno, il traditore, il mercante, il banchiere, il pescivendolo, il saggio, il pederasta, spesso il filosofo con l’antico vizio della pedofilia: luci ed ombre, miseria e grandezza dell’animo umano… Spesso vizi privati e pubbliche virtù… La locandiera con il dono del vaticinio. Come dimenticare Diotima (amore di Zeus), dallo sguardo magnetico, l’ancella fedele e, dulcis in fundo, Agido, fanciulla di divina beltà, dimidiata tra amore (Afrodite) e saggezza (C), vittima sacrificale della ragion di Stato, (quanto vale dunque, la vita di una donna? si chiede Oreste esterrefatto.

    Purtroppo, ce lo chiediamo, ancora oggi, talvolta…) destinata a divenire sacerdotessa di Demetra per volontà del padre, del tiranno Alcmeone a fare voto di castità alla dea della fecondità. Agido sceglierà l’amore e la felicità fuggente, inneggiando a Kairos, dio dell’attimo felice. Per Oreste è subito amore, ed Agido lo conduce, infatti, durante la festa di Demetra al bothros. Ecco il titolo del libro: “Il pozzo di Elea”, il pozzo dei desideri che è al centro della vicenda. È lì che Agido confida ad Oreste: “Avevo promesso a me stessa che qui avrei portato il primo uomo che mi avesse inviato Afrodite. Io non voglio finire come le Danaidi, inseguita da un uomo che non voglio”. Poteva Oreste rinunciare a tanta profferta d’amore? Scoprirete cosa avverrà, durante il simposio a casa di Mimnermo. Afrodite e Ares avevano deciso per Oreste, trascinato da eventi precipitosi, imprevedibili, misteriosi. E il pozzo di Elea è sempre al centro della vicenda. È lì che sarà trovato Mimnermo, il tiranno designato da Alcmeone, dopo l’assedio di Teofrasto, orribilmente sfigurato per sottolineare, con l’irriverente salacità italica, la sua impotenza.

    Dal bothros inizia e nel bothros si conclude la tenera storia d’amore e la ricerca dei papiri…

    Male di vivere e dolore per l’esistenza? Chissà! Il bothros è ancora lì, lungo la strada che conduce alla Porta Rosa. È lì che venivano gettate le offerte votive di chi partiva o tornava, o semplicemente desiderava chiedere qualcosa al dio.

    Quel dio era certamente Hermes, il dio dei commercianti e insieme dei ladri, arguto e, talvolta, beffardo. E non solo la vicenda, la vita diviene una beffa. Beffa o mistero? Ci interrogheremo attraverso la lettura. “La lettura è un dialogo incessante, in cui il libro parla e l’anima risponde”: (F. Mauriac), è momento di analisi, di autoanalisi, di riflessione, di conoscenza, di autenticità nel frastuono del quotidiano, nell’artificiosità dei rapporti sociali. La lettura de “Il pozzo di Elea” assume una valenza culturale e una specifica peculiarità in quanto ci rafforza nella consapevolezza e nell’orgoglio delle nostre radici e dell’imprescindibilità dell’eredità della civiltà mediterranea della Magna Grecia, che è parte del nostro DNA.

    Orgoglio di essere figli del Sud, in particolare quest’anno che ricorre il compleanno di Napoli.

    La si chiami Neapolis, città nuova, Partenope magica o ancor prima Palepoli, di millenaria civiltà, ogni angolo, ogni pietra trasuda storia e cultura, ma anzitutto grecità.

    Per i 2500 anni della città, tra i numerosi, straordinari eventi in preparazione, particolarmente significativo, in sintonia con il nostro Lorenza Rocco Carbone discorso, l’annuncio di Roberto Tottoli, rettore dell’Università degli Studi di Napoli – L’Orientale, di creare una biblioteca delle culture, aperta sia agli studenti che al pubblico.

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