Franco Silvestro e la sua arte

Si dice Napoli ma si dovrebbe dire tutta l’Italia e gran parte del nostro mondo: quella città, nel lavoro di Silvestro, è identificabile nella sua identità geopolitica e storica

Cilento - giovedì 13 giugno 2019
Ritratto Franco Silvestro -Foto Crescenzo Zito
Ritratto Franco Silvestro -Foto Crescenzo Zito © Unico

Sono ormai molti anni che Franco Silvestro lavora, come pittore, scultore, video-artista, artista di installazioni, chiamatelo come volete o chiamatelo semplicemente artista, magari uno di quelli che sceglie i più diversi mezzi espressivi perché vuole testimoniare della complessità del reale su cui vuole intervenire. Infatti, a volerlo definire, Silvestro è un artista della realtà, come si diceva una volta “pittore della realtà”, cioè pittore interessato a tematiche sociali. Non si tratta di impegno definibile come politico, si tratta di una volontà di testimonianza non tanto del contesto in cui si opera e vive, ma più precisamente di sé stesso come soggetto, direi anche come prodotto, storico.

Silvestro vive a Napoli, è vissuto anche a Milano e credo altrove, dove il lavoro di insegnante di accademia d’arte l’ha portato, e non appartiene a una famiglia della grande borghesia, in altre parole il suo contesto esistenziale è quello “popolare”, e trattandosi di Napoli uso questo termine fra virgolette. Perché non c’è bisogno di leggere i giornali tutti i giorni per sapere che la Napoli popolare non è solo le commedie di Eduardo e il presepe di San Gregorio Armeno, è anche tutto l’orrore di cui appunto siamo quotidianamente informati, la criminalità organizzata, e tutto il degrado di cui sappiamo con nostro disappunto, vedi le recentissime vicende politico-giudiziarie.

Naturalmente si dice Napoli ma si dovrebbe dire tutta l’Italia e gran parte del nostro mondo: quella città, nel lavoro di Silvestro, è identificabile nella sua identità geopolitica e storica ma è anche da intendersi come metafora di una situazione esistenziale, di uno stato dell’anima e del corpo.

Uno stato non bello, diciamo contraddittorio, assediato dal male ma pieno di potenzialità…

Ho seguito il lavoro di Silvestro particolarmente negli anni novanta quando stava a Milano e esponeva presso la galleria Artra Studio. Prima di quel periodo, e dopo, vedevo e vedo le sue opere in studio, a Napoli appunto (prima ancora ad Afragola…), con assiduità ma senza molta continuità. Quelli sono quindi gli anni che conosco meglio, e sono anche quelli di una più precisa “presa di posizione” da parte dell’artista, che ne hanno fondato la maturità. Lui ci tiene a dire che la prima opera importante realizzata a Milano è stata l’installazione del 1992 presso Viafarini: Nebbia, si chiamava, ed era letteralmente un ambiente che si riempiva progressivamente di nebbia artificiale inghiottendo tutto e tutti, a cominciare dagli artisti che oltre a Silvestro erano Piero Gatto, Gabriele di Matteo e Simeone Crispino di Vedovamazzei. Un gruppo di napoletani che avrebbe fatto parlare di sé di lì a poco. L’azione poi è stata “ripresa” da un’altra artista di fama internazionale per un padiglione della Biennale di Venezia, si sa come vanno queste cose: gli artisti italiani non sono noti all’estero perche nessuno li promuove, e le loro idee non vengono diffuse. Probabilmente quella nebbia che faceva perdere i connotati spaziotemporali a chi vi entrava per vedere la mostra, cioè per non vedere più niente, valeva per gli autori come una tabula rasa, un grado zero, un atto radicale di nullificazione da cui ripartire. Infatti sono ripartiti, quasi tutti con le loro ricerche più interessanti.

Per Silvestro la nebbia era una delle tante strategie di uscita dalla centralità della pittura, dalla quale arrivava, avendo esordito in tempi di Transavanguardia imperante, e che aveva già tentato anche con la collaborazione con Piero Gatto (opere in cartone, e la denominazione Gatto Silvestro che resterà nella storia).

Qualche anno dopo realizza alcune delle opere che restano nel suo curriculum come le più compiute nel senso che dicevo prima, capaci cioè di focalizzare su un contenuto preciso, e nello stesso tempo di generalizzarlo, non per farlo diventare “universale”, ma per renderlo emblematico di una realtà storica.

Silvestro ricorre a ciò che il termine “popolare” comporta, una volta calato nella realtà complicata di Napoli: i video a volte sono registrazioni di trasmissioni musicali realizzate nelle televisioni locali, dove qualcuno magari canta canzoni come quella dedicata al latitante, cioè al boss della Camorra che viene evidentemente eroicizzato. E questi video sono costruiti nel modo più semplice, con una registrazione in tempo reale, e presentati in modo altrettanto dimesso, tramite un monitor messo per terra, davanti alla gigantografia di un quartiere malfamato della città. Popolare si lega insomma alle culture “basse” che diventano oppositive rispetto alla cultura ufficiale tanto da legarsi ai controvalori del crimine organizzato.

L’attenzione di Silvestro naturalmente va alle vittime, anzi si può dire che il tessuto sociale che fa da sfondo alle sue opere è interamente impregnato della loro istanza, che emerge fin dalle sue prime opere, fin dai ritratti realizzati con pittura e polvere da sparo…. Le vittime sono anonime, anche quando hanno un nome, e anonima è la forza che li schiaccia, che ha nomi astratti, come camorra o droga, ma dietro cui si nascondono esseri in carne ed ossa che non emergono mai alla luce, difficilmente hanno un’identità. Nelle sue installazioni, il peso di questo anonimato ben riconoscibile ma non detto si esprime con l’ingombro delle cose, sono le migliaia di siringhe che ricoprono il pavimento di La stanza dove Antonio si bucava, stanza dove l’unica altra presenza è la foto di un ragazzo visto in piedi, di spalle, nudo, con la schiena crivellata da proiettili.

L’installazione e il video, con l’uso di materiali non artistici, fotografie, o con la ripresa volutamente “sporca” della camera, costituisce il lato più secco e duro dell’opera di Silvestro. Curiosamente, invece, i dipinti che continua a realizzare nel corso di tutta la sua carriera, assumono col tempo un aspetto quasi favolistico, di un lirismo virato verso una imagerie quasi infantile, ricca di colori delicati. Quando non si tratta di bassorilievi o di busti, molto belli, in ceramica smaltata. Questo però riguarda il periodo più recente: in quegli anni, la pittura vira verso il grigio, descrive periferie desolate e redente solo per via di una forte pulizia formale, di una capacità sintetica nel descrivere scorci urbani che sfocia poi nei Paesaggi Marginali del 2001, anno in cui si chiude il periodo cui qui faccio riferimento: pennellate curvilinee di pittura grigia che un tempo erano strade e ora sono piani di scorrimento, anzi di disfacimento, gorghi dove gli edifici urbani sprofondano, si dissolvono, in un empito tanto surreale quanto disturbante.

E se la pittura ci cala in una dimensione sospesa, se ci mostra scenari che sembrano colti da un’aura drammaticamente metafisica, l’opera tridimensionale svolge, in questo periodo, un ruolo diverso, ci riconduce cioè alla realtà più dura.

L’installazione o la scultura diventano dunque ingombro: è il peso di una realtà che nessuno sguardo estetizzante potrà mai trascendere, di cui l’artista vuole testimoniare nel modo più diretto, semplicemente esponendo anzi accumulando materiali, riempiendo lo spazio. C’è anche il soldato, una statua vivente in carne ed ossa, che in mimetica sta a fare la guardia su un piedistallo, protetto da una cappa di vetro antiproiettile. E ci sono gli oggetti, la materia del quotidiano: i mobili di un appartamento accumulati in buon ordine (e con un televisore acceso) nella sala espositiva per la mostra intitolata Lo Sfratto, e pochi elementi residui de La macchina rubata, con la batteria ancora attiva che fa funzionare il tergicristalli opere tutte del 1998).

Le opere, gli oggetti, i materiali, sono sordi, essendo tratti da una realtà degradata appartengono al mondo deprimente delle cose ordinarie, poco costose, al limite dello squallore. E tuttavia essi urlano, l’ingombro è sempre una presenza eccessiva, sono realizzate per dare fastidio, per sembrare incongrue e imponenti, inesplicabili al di là del loro attestato di generica drammaticità: che ci fa un soldato vero in un gabbiotto dentro una galleria d’arte?. Bene, tutti gli aggettivi e sostantivi che abbiamo usato in quest’ultima frase si adattano perfettamente a descriverlo, così come alla realtà, specie quella a cui Franco Silvestro vuole fare allusione.

Lascia il tuo commento
commenti
Altri articoli
Gli articoli più letti