Si vanti pure e gridi alto di Eleonora Fonseca Pimentel la magnifica città di Roma il nome!

Chiesto ed ottenuto un caffè, serenamente, come il tuo sogno comandava, offristi il collo al boia, che inforcandolo spezzò con una mossa fulminea consegnandoti per sempre alla storia ed alla gloria

GAETANO RICCO La Scvola di Atene
Cilento - lunedì 14 novembre 2022
L'abitazione di Eleonora Pimentel Fonseca a Napoli, Salita Sant'Anna di Palazzo
L'abitazione di Eleonora Pimentel Fonseca a Napoli, Salita Sant'Anna di Palazzo © Wikipedia

EPIGRAFE Rediviva Poppea, tribade impura, / d’imbecille tiranno empia consorte / stringi pur quanto vuoi nostra ritorta/ l’umanità calpesta e la natura.../ Credi il soglio così premer sicura / e stringer lieto il ciuffo della sorte? /Folle! E non sai ch’entro in nube oscura / quanto compresso il tuon scoppia più forte? / Al par di te mové guerra e tempesta / sul franco oppresso la tua infame suora / finché al suol rotò la indegna testa... / E tu, chissà? Tardar ben può ma l’ora / segnata è in ciel ed un sol filo arresta /la scure appesa sul tuo capo ancora. (Eleonora Pimentel Fonseca, “Alla regina Carolina”) Ed anche per te, donna Eleonora, figlia della città di Roma, che “della poesia ne facesti libertà” … canterò il mio canto! E richiamando quel primo tempo favorevole, di quando, in salotti, la tua Napoli con Vienna e con Parigi gareggiava, per te, che fin da bambina del grande Filangieri raccogliesti con Domenico Cirillo e l’abate Galiani il plauso, canterò principiando da quel tuo primo, grande, vero amore che fu la poesia. Di quando imperando del grande Metastasio la forma e lo stile tu cominciavi a poetare e,fanciulla, alla maniera degli Arcadi, il tuo nome anagrammando “Altidora Esperetusa” ti nomasti. E novella “pastorella, damina incipriata che impugna la rete per acchiappare farfalle e con il falcetto per cogliere rose” speranzosa ti avviasti a sognare di calcare “i giardini fiabeschi” del re. E per davvero poi venne quel giorno “avevi appena compiuto sedici anni, quando in compagnia dello zio abate, che in occasione della festa di nozze del giovane re Ferdinando, tuo coetaneo, con una delle figlie di Maria Teresa d’Austria, Maria Carolina, a corte venisti ricevuta”. Era il 12 maggio dell’anno1768 e tu, felice dei tuoi versi in dono portavi al tuo re, di quell’ampio scalone che al suo trono portava ne salisti i gradini. “Il Tempio della Gloria” avevi il tuo epitalamio titolato e tanto avresti della gloria della poesia sperato in quel re, ma non sapevi e … quel re che per diversi epiteti, tutti negativi, fu nominato, non amava la letteratura chè altre con la caccia, le gozzoviglie, le feste erano le sue passioni e ancora meno la poesia! Ma tu eri ancora una fanciulla e non potevi sapere di quel re, di cui Giuseppe II d’Asburgo suo cognato, mandato a Napoli dalla madre Maria Teresa d’Austria, in “visita di cortesia” alla sorella Carolina, narra che l’abbia ricevuto “seduto su una sedia con un bel foro al centro e i calzoni abbassati e con cinque o sei valletti attorno e un po’ di cortigiani” ed in un “fetore insopportabile”, tanto che concludendo di quella visita il suo resoconto così, amaramente, scriveva alla madre “per questo paese non c’è assolutamente niente da fare ,neanche sprecare consigli”. E fu così che quando finisti di declamare i tuoi versi non le lodi vennero del re, ma piuttosto interessato alla tua “scollatura”, si narra che girandosi verso un valletto che gli era vicino, facendo scorrere i suoi triviali versi, (qualcuno in segreto li raccolse e li tramandò) abbia sussurrato: “Sì la femmena fa ‘a pazza / siente ‘a voce ca s’aìzza / dint’ ‘e rrecchie comme a trono / e te vene ‘o moto ‘e stizza! / Nun dà retta, appila ‘o suono / cu na mano ‘ncoppa ‘a zizza / ca lle fà scènnere ‘o tono / e t’ ‘a truove ca s’arrizza / e accussì tu bbuono bbuono / chiano chiano te l’appizze”. Chè questo era il re e quella auspicata “età di Ferdinando che ogni altra avanzerà che l’alme illustre dei regi accese” che, ancora una fanciulla, cantavi, mai sarebbe venuta, preparandosi di contro per Napoli e per te una stagione diversa ed assai più tragica. Consegnati infatti al passato un matrimonio infelice, un marito ignorante e violento di cui scrivevi “ogni pretesto era buono per darmi addosso” ed un figlio, “fiore di tutti i fiori” nato e poi in tenera età morto, in una città assetata di giustizia e libertà donna ti ritrovasti e già giovane ammiratrice di quella feconda stagione “illuminista” che vide tra le grandi Napoli primeggiare, prendesti a frequentare quei “club” e quelle prime associazioni liberali e filantropiche che ancorchè tollerate, vennero poi assolutamente perseguitate, allorchè, nella sua rivoluzione, con quella del re Capeto la Francia fece cadere anche la testa della regina. Era la regina di Francia la sorella della regina di Napoli per cui quando la notizia giunse a Napoli Carolina impazzì dal dolore e maledicendo i francesi e tutti coloro che, e tu eri tra questi, donna Eleonora, che con loro facevano concerto, gridando al cielo la sua vendetta, promise che tutti li avrebbe perseguitati fino alla morte, e nulla nel regno di Napoli da quel giorno fu più come prima! E quando davanti al porto di Napoli su quella nave, che della “Nuova Francia” sosteneva la visita dell’ambasciatore, insieme, a quelli che di quella tua Rivoluzione saranno i primi martiri, venisti scoperta, da tempo infatti, nella miseria del popolo napoletano, avevi abbandonato il mondo dorato dell’Arcadia e più non verseggiavi e se mai ancora qualche verso verrà, sarà solo per biasimare e condannare la tirannia e la “rediviva Poppea, tribade impura/ di imbecille tiranno empia consorte”. La incipriata “pastorella” dal bucolico nome di “Altidora Esperetusa” che tanto era piaciuta alla regina, più non c’era e un’altra donna tu eri diventata e, come per i “lazzari” dei tuoi quartieri Spagnoli, per tutti, ormai, tu eri solo e solamente “donna Lionora ‘a giocobba”. Per cui trovata su quella nave a sognare la nuova Napoli, come tutti gli altri tuoi compagni, venisti arrestata e tosto in catene tradotta nelle carceri della Vicaria, ‘nt’o panaro”, come usavano chiamare quel triste luogo i lazzari, venisti, tra prostitute, assassine e usuraie, senza rispetto, richiusa. Era il 5 ottobre dell’anno del Signore 1798 e non passarono che pochi mesi, che impaurito dall’avvicinarsi dell’esercito del generale francese Championnet a Napoli, il re, dopo la disastrosa fuga romana, con la regina, i figli e il tesoro strappato alla corona, sotto la vigile protezione della flotta inglese, che da tempo sostava nel porto di Napoli, coraggiosamente decide di scappare (era la seconda volta nel giro di pochi mesi!) di lasciare Napoli e fuggire in Sicilia, a Palermo, lasciando la città nelle mani dei “lazzari”, che al grido di “ o rre ggià se n’è fuiuto” si impadroniscono della città e fanno “balìa di ogni delitto”. Ed in quella generale“anarchia” che ne seguì, anche le prigioni si spalancarono e anche tu, che mai avresti sperato, tra le tante assassine carcerate che in quei giorni riempivano la Vicaria delle monache, libera ti ritrovasti. E mentre la città, nelle mani dei “lazzari”, nel più assoluto disordine, veniva dallo stesso vicario del re, il principe Pignatelli, abbandonata, anche lui fuggendo a Palermo, dove, si narra, il re, perché “accussì se ‘mpara ca sulo ‘o rre se ne po’ fuì”, lo farà imprigionare. Tu, con la camicia oramai tagliata “alla ghigliottina, i capelli corti e già venati di bianco” indossando un vestito da uomo, insieme ad “uno sparuto gruppo di giacobini” occupaste Castel Sant’Elmo. E facendo tesoro del “blu di un vecchio cappotto, il bianco di lenzuolo, ed il rosso di un paramento sacro del priore di San Martino”, prima ancora che Championnet entrasse, mentre ancora, in potere dei lazzari, la città bruciava, piantando al centro della corte del castello un “rudimentale albero della libertà”, su uno degli spalti più alti del castello, annunciando alla città una nuova alba, alzaste il primo tricolore della novella “Repubblica Napoletana” che “una ed indivisibile” sarebbe stato lo stesso vostro destino! Era il 21 di gennaio dell’anno 1799, il VII della Repubblica Francese e si narra che, davanti a quel tricolore che impetuoso sventolava al vento della libertà, il tuo cuore, pur chiuso da anni, tremò e piangendo cadde riempendosi di nuova gioia e tu, come già una volta, donna Eleonora, tanto tempo prima, riprendesti a cantare ma altro fu il fu canto inneggiando alla giustizia ed alla riconquistata libertà della tua città. E furono gioia e impegno delirante i giorni che seguirono, quando costituito il “governo provvisorio”, tu, prima fra tutte le donne d’Italia, venisti assegnata alla nascita e alla direzione del giornale della Repubblica, che avrà titolo il “Monitore”, altri giornali nasceranno ma il tuo sarà il primo e l’unico che, come un “atto politico”, sarà deliberato dal governo provvisorio. Il giornale, come lo stesso nome dichiara, avrebbe dovuto non solo “vigilare” ma, come più volte tu stessa rivendichi da quelle pagine, non solo informare, ma, sopra ogni cosa, “formare”, perché solo un popolo informato e formato al nuovo diritto di “cittadinanza” avrebbe potuto amare e difendere la repubblica comanda. E pur di arrivare a quel popolo che volevi “formato”, non ti calesti di usare anche il “napoletano” ma troppo erano i “lazzari” lontani da quei tuoi alti ideali e se pure essi quella lingua la parlavano, certo però che non solo non la leggevano ma tanto meno la scrivevano e così a fronte delle quattrocento copie per numero che farai stampare ne venderai appena un centinaio vendute e forse lette. Trentacinque, nelle breve e gloriosa stagione della Repubblica, furono, più due supplementi, i numeri. Il primo uscì il due di febbraio e si aprì, ricordi, con il gioioso annuncio della libertà ritrovata “siam liberi in fine ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi della libertà, e di uguaglianza”, l’ultimo, ma non lo sapevi, sarebbe uscito l’otto di giugno, quando darai la notizia dello sventato attacco a Barra delle truppe sanfediste del Cardinale Ruffo, perché tu intrepida continuando, anche il giorno dopo, come facevi ormai da quattro mesi, ti recasti alla stamperia per preparare il numero del martedì (il giornale usciva due volte a settimana il martedì ed il sabato) che, ahimè, non vedrà mai luce. Ed inutile sarà ogni sforzo, chè dopo l’eroica resistenza dei repubblicani al forte del Granatiello, la sconfitta del ponte della Maddalena ed il celebre l’episodio del fortino di Vigliena di San Giovanni a Teduccio, fatto saltare in aria dall’interno dai “patrioti” per non cadere nelle mani dei sanfedisti, gli “insorgenti” del Cardinale oramai dilagano per tutta la città di Napoli ed ogni vico, ogni piazza risuona del canto dei lazzari, che tornati sudditi fedeli del “re pate”, accusando i “giacobini” di aver tradito il loro re, “ a lu suono de’ li campani / viva, viva li populani” / A lu suono de li violini / sempre a morte li giacubini” si mettono alla caccia del giacobino e lì dove prima “democraticamente” regnava San Gennaro “giacobino” ora “ tirannicamente” regna Sant’Antonio “sanfedista”. E fu tanta la violenza che i lazzari scatenarono che un oscuro testimone di quei fatti “atterrito” così ebbe a scrivere “sarebbe un quadro da dar terrore se tutto potesse mettersi sotto l’occhio del lettore quanto è accaduto in Napoli da dieci giorni. Io non ho accennata che la menoma parte. Per Napoli si sono veduti trascinare a centinaia ogni giorno gli arrestati del popolo, e il trascinare solo sarebbe stato niente, ma dilaniati, feriti, mutilati, e morti, portandone le teste sulle aste. E chi sa se tutti erano rei”. Una violenza ancestrale di antichi riti tribali si scatenò per tutta la città e le teste mozze dei giacobini ruotano sulle aste insanguinate dei lazzari facevano spettacolo di vero orrore ferino ed a nulla valse nè la giustizia nè la pietà che il sangue scorreva e la morte, terribile, aleggiava con la sua falce sulla città. Non rimaneva, donna Eleonora, che di tentare l’ultima, estrema difesa e così, pronti alla morte, insieme ad alcuni tuoi compagni, decideste di trincerarvi in Castel Sant’Elmo, lì, dove tutto era cominciato, che presidiato ancora dai soldati francesi del generale Mejan, lo pensavate amico. E quando, a fronte di tanto orrore, ricordandosi il Cardinale Ruffo di essere un prete, per fermare la ferocia dei suoi, venne a proporvi un “patto di capitolazione” voi l’accettaste e quando, anche dai rappresentanti di Russia, Inghilterra e Turchia, alleati del re Borbone, il patto fu firmato e controfirmato, voi apriste le porte del castello e fiduciosi al Cardinale vi consegnaste. Il patto stabiliva che, con l’onore delle armi, voi capitolaste e accompagnati e scortati fino al porto di Napoli, sareste stati imbarcati su quattro navi e trasportati in Francia, precisamente a Tolone, da dove sparsi per la Francia sareste, in esilio perenne, condannati! Questi erano i patti, ma in agguato la regina Carolina covava il tradimento del re “vigliacco” e complice il traditore inglese Nelson, una volta saliti sulle navi, non per la Francia, come stabilito, faceste vela ma, trattenuti sulle navi, dopo un mese e più di angherie e di soprusi in attesa di un ordine di partenza che non mai arrivò, foste arrestati, incatenati e tra una folla di lazzari urlanti che vi sputavano addosso, foste sbarcati e tradotti tutti in galera. E tu, donna Eleonora, che di quella breve eppure gloriosa Repubblica ne foste la “voce”, ti ritrovasti di nuovo“‘nt’o panaro” della Vicaria sepolta, sola, nemmeno più una monaca a consolarti. Non passarono che poche settimane e, come già era accaduto all’ammiraglio Francesco Caracciolo, fatto impiccare dopo un giudizio sommario all’albero maestro della nave del traditore Nelson, contro cui, (come tu stessa, donna Eleonora, ci ricorderai nelle tue ultime parole pronunciate dal patibolo che ti avrebbe consegnato alla gloria!) vale la pena di ricordare, Charles Fox, uno dei più noti politici britannici del suo tempo, pronunciò un acceso discorso di vergogna e di condanna, anche tu, (la sentenza era già stata scritta da tempo da Carolina a Palermo) per un processo farsa venisti, con sentenza immediata ad eseguire, condannata a morte. E quando giunse il giorno dell’esecuzione, dopo essere stata “spogliata nuda, penetrata con le dita” ti venne restituito “l’abito nero” ma, perché più alta l’onta di un re fosse ricordata, non vennero restituite “le mutande” perché penzolando dalla forca il tuo ventre fosse a godimento della plebaglia esposto. Provasti, chè sempre eri una donna, a chiedere un laccio che potesse stringere la tua veste, ma anche questo ti venne negato e nuda del tuo ventre salisti il patibolo. Fosti l’ultima, dopo i tuoi compagni, quel giorno e nessuno, nemmeno il boia, ti vide tremare, solo si narra e qualcuno trascrisse, che salendo la forca e guardando la folla che nuovamente era tornato ad inneggiare al suo tiranno, avresti quel verso “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” (forse un giorno gioverà ricordare anche queste cose) che Enea usò per rincuorare i suoi compagni scampati alla tempesta, mormorato, e che tra chi quelle “libiche piagge” ancora frequenta, alto continua a risuonare. Chiesto ed ottenuto un caffè, serenamente, come il tuo sogno comandava, offristi il collo al boia, che inforcandolo spezzò con una mossa fulminea consegnandoti per sempre alla storia ed alla gloria, mentre che lui, come era di consuetudine, togliendosi il berretto rosso gridava “ viv’‘o re”. Tutto fu consumato in attimo, pietà (sic!) di un “re lazzarone” e di un popolo che per tutto il giorno continuò, sbeffeggiandoti come”a signora donna Lionara che alluccava ‘ncoppa triatro mò abballa miezo ‘o mercato”, a cantare ed a ballare. Era il 20 agosto o, come al tuo sarebbe piaciuto, il “tridì” della “prima decade” di “fruttidoro”, un giorno che le cronache del tempo raccontano “strano”, perché mentre ancora impazzava sulla piazza la festa, ecco che all’improvviso un vento impetuoso si alzò dal mare e mentre il cielo apriva le sue cataratte facendo su tutta la città cadere pioggia e grandine, si sentì forte di lontano urlare il Vesuvio il tuo nome e con il tuo, Eleonora Fonseca marchesa di Pimentel, tutti quelli dei tuoi sei compagni: Gennaro Serra di Cassano, Giuliano Colonna di Aliano, Michele Natale, Nicola Pacifico, Domenico Piatti, Antonio Piatti, Vincenzo Lupo, e subito sulla piazza si fece silenzio ed ogni voce tacque. Sola una voce si levò e fu quella del poeta antico di “mnemosine” che, a noi, che forse, con il tuo sacrificio, abbiamo troppo presto dimenticato anche con la patria la libertà, continua amaramente ad ammonirci mentre che “tu onor di pianti avrai ove fia santo e lagrimato il sangue/ per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane”. P.S. Scrive Renato Bruschi nel suo “Prologo” al saggio su Francesco Maria Pagano, che il re ricevendo, nel vigliacco rifugio di Palermo, la notizia della esecuzione di Eleonora Pimentel Fonseca, abbia così risposto al Cardinale Ruffo: “ricevei ieri la vo-stra lettera del 20, che mi ha fatto gran bene, sentendo che costì non vi sia nulla di allarmante, l’allegria riprendendo il suo solito corso nel popolo; [...]che si siano incominciate le esecuzioni dei Rei e che la Giunta di Stato travagli senza in-termissione” Questo, donna Eleonora, il mio epigramma per te: “E se cara fosti alla Musa pure di Libertà ti prese amore e del tempo reo tosto ne pagasti il danno ed il vanto!” Questo, donna Eleonora, nell’agosto che non mi appartiene, il mio sogno e la tua eredità ... il fiore che ti porto! Chiusa, come al tuo cuore piacque, nel giorno voluto della “vescia”, il “tridì” della “prima decade” di “fruttidoro” dell’anno della Repubblica CCXXX, nelle prime ore pomeridiane del giorno di sabato 20 agosto dell’anno del Signore 2022! P.S. COME AL CUORE DI ELEONORA PIACQUE Nacque a Roma, nel 47° anno prima della Repubblica Napoletana Era il giorno del “rame”, il ‘”quartidì ” della “terza decade” di “nevoso” Morì a Napoli nel 1° anno della Repubblica Napoletana Era il giorno della “vescia”, il “tridì” della “prima decade” di “fruttidoro” NOTA STORICA SUL CALENDARIO RIVOLUZIONARIO DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE Il capodanno dell'anno I, fu stabilita il 22 settembre 1792, giorno di proclamazione della Prima Repubblica Francese. Restò in vigore sino al 31 dicembre 1805. Fu riadottato per soli 18 giorni dal Comune di Parigi del 1871.

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