Dal Cervati al mare. Verso il ritorno

“Se presto orecchio alla brezza che carezza i giovani virgulti dei vitigni mi arriva fin qui l’eco di una antica civiltà contadina..."

LIUCCIO GIUSEPPINO I Viaggi del Poeta
Cilento - venerdì 28 settembre 2018
Roscigno Vecchia
Roscigno Vecchia © Unico Settimanale

Fu un tempo comune autonomo. Da molti decenni è frazione di Laurino. Si chiamava Fogna.

Nel 1931 assunse il nome di Villa Littorio, come pomposamente decretò la retorica fascista. Viveva, paga della propria solitudine, su di un petto di collina, balconata verde sul displuvio del torrente Pietra, che, a ferita zigzagante di campi, va ad ingrossare le acque del Calore. Agricoltura di sussistenza e pastorizia le risorse dei circa 800 abitanti a consumare l’esistenza di lavoro tra campagne e boschi a quotidiana fatica del vivere, prima del rientro, a sera, nelle antiche case calde di pietra del centro storico o in quelle nuove più accoglienti con l’arredo di minuscoli orti ad orgogliosa esposizione di ortaggi di immediato consumo e a vanagloria di rose profumate e di gerani multicolori a ricamare mosaici screziati su finestre, logge e scalinate. La recente costruzione della strada a fondovalle di collegamento con Roccadaspide ne ha fatto il naturale terminal per quanti dal mare e dalla Piana di Paestum puntano verso i centri dell’Alto Calore. E si aprono nuove avvincenti prospettive di commercio e di servizi, i cui segni sono già evidenti in un rinato sviluppo edilizio, che, c’è da augurarsi, non ne stravolga la serenità di tranquillo borgo rurale. Dalla minuscola piazza/belvedere lo sguardo spazia su di una vallata ampia ed ariosa. Di fronte il Monte Motola ostenta i contrafforti nell’aridità lunare della cima e nel verde dei lecceti a mezza costa. La strada verso Sacco è ferita d’asfalto nel fasto rigoglioso della primavera. Fu l’antica Via del sale”, e “del grano” ed animò traffici e commerci di Velini e Pestani verso il Vallo del Diano ed oltre. Il paese, che fu “castrum” ambito e temuto per la sua posizione strategica, attore e protagonista di belle pagine di storia sia antica che del tormentato medioevo del Cilento interno, ricama chiese e case nell’avamposto della valle. Spicca nel grigio compatto del Centro Storico la monumentale Parrocchiale, che fu di San Nicola ed è di San Silvestro con il massiccio caratteristico campanile, nelle cui nicchie esterne ammirai con interesse di ricercatore le statue di terracotta di San Silvestro, Cristo flagellato e San Nicola, che la gente ha affettuosamente ribattezzato “i mocci”. Più giù, dirupante dal cocuzzolo, è Sacco Vecchia, che vanta storia nobile di feudo importante nel susseguirsi di “signori” potenti, esperti di navigazione politica per tenersi a galla. Ne fecero le spese contadini e pastori inconsapevoli, venduti in una con la terra, da duchi e baroni nel complicato gioco di alleanze e tradimenti con papi e sovrani longobardi, normanni, svevi, angioini, aragonesi e borbonici nella evoluzione intricata della storia della contrada lungo il corso dei secoli fino all’Unità d’Italia. Ne fu vittima anche la duchessa Saccia che in un impeto di orgoglio osò ribellarsi all’arroganza del marito e finì i suoi giorni nella prigionia del castello merlato a volo di monte sull’ariosa vallata. Il suo gesto eroico è consacrato nella toponomastica; e quel grumo di case illividite dal tempo e dall’incuria del tempo porta il suo nome. È una notizia forse poco attendibile sul piano del rigore storico, ma di sicuro non priva di fascino; ed alla mente del cronista poeta una coppia di rondini ebbre di libertà nel volo dell’amore figurano l’anima della baronessa che canta ancora l’inno della libertà nell’aria profumata di un pomeriggio di primavera. Giù a fondovalle c’è festa di vegetazione a protezione della grotta da cui sgorga fresca e limpidissima la sorgente del Sammaro che cantilena nel breve quanto tortuoso corso il fascino di storie, leggende e miti raccolti alle radici dei paesi. A sinistra, su indicazione di Bartolo Scandizzo, che è padrone di storia e geografia del territorio, c’è Roscigno Vecchia, che mi ha incantato a più riprese nel corso degli anni per il silenzio assorto di chiesa e case dove, pure a prestare orecchio ai ricordi, vive e palpita una ricca umanità che ha scritto pagine esaltanti di lavoro su muri sbrecciati che nella stagione giusta ridono di colori e profumi nell’esplosione di violaciocche e bocche di leone spontanee ad ingioiellare fessure di pietre (Oh la delicata poesia della memoria!). Se presto orecchio alla brezza che carezza i giovani virgulti dei vitigni mi arriva fin qui l’eco di una antica civiltà contadina che nella piazza anima feste, nella chiesa si esalta nella gioia dei matrimoni e piange ai funerali e nei vicoli popolò incontri vespertini a chiacchiericcio di comuni esperienze di lavoro ed accese speranze a progetti di futuro. Non è affatto morta Roscigno Vecchia, ma vive e palpita nella memoria della storia con l’esercito di ombre che si materializzano a sciamare per vicoli e slarghi per popolare come un tempo, chiesa e piazza a reclamare il loro protagonismo di memoria. Vive e palpita Roscigno Vecchia più di quanto non faccia la nuova, nata su imposizione del Genio Civile (1902 – 1908) qualche chilometro più a sud su di una altura meno esposta ai capricci delle frane.

(Queste notazioni di viaggio sono tratte dal mio opuscolo: VERSO IL CERVATI – Plectica edizioni – 2007)

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