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    Aree Interne

    Serve un piano di sviluppo per restituire futuro alle aree archeologiche del Cilento interno e degli Alburni

    Di Vito Gerardo Roberto16 Aprile 20258 Min Lettura9K VisiteNessun commento
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    Nel cuore delle terre alte del Cilento e degli Alburni giace un patrimonio silenzioso, troppo a lungo dimenticato. È un patrimonio fatto di pietre antiche, di necropoli lucane ed enotrie immerse nella vegetazione, di mura ciclopiche che resistono al tempo.

    Sono luoghi che non chiedono solo tutela: chiedono di essere riportati a vita. Non per essere musei a cielo aperto senza voce, ma per diventare laboratori di lavoro, di comunità e di futuro.

    Luoghi come Monte Pruno (Roscigno), Moio della Civitella, Sacco Vecchio, Costa Palomba (Antece) di Sant’Angelo a Fasanella e tante altre aree archeologiche disseminate nelle zone interne del Cilento e degli Alburni custodiscono tracce preziose di civiltà antiche.

    Questi siti non sono soltanto testimonianze del passato, ma possono diventare il cuore pulsante di un nuovo modello di sviluppo economico. Lontano dai grandi flussi del turismo balneare, il Cilento interno e gli Alburni hanno la possibilità – e il dovere – di trasformare la memoria storica in energia produttiva, in riscatto sociale, in orgoglio territoriale.

    Per riuscirci, serve un piano strategico che sia coraggioso, serio, coordinato e misurabile. Ma, soprattutto, serve che sia scritto da chi ne ha davvero la competenza. Non può essere frutto di improvvisazione, né affidato a figure scelte per ragioni politiche o di rappresentanza.

    Questo piano deve essere elaborato e gestito da persone altamente competenti in materia di sviluppo locale, progettazione culturale, gestione dei beni archeologici e innovazione territoriale. Solo chi ha conoscenza reale del tessuto economico, delle dinamiche sociali e delle potenzialità inespresse può dare concretezza a una visione che oggi è necessaria.

    Un piano, dunque, che parta dal basso ma sia guidato da una regia alta, tecnica, esperta. Non basta valorizzare i luoghi: bisogna inserirli in un ecosistema vivo, dove la narrazione storica si intreccia con il lavoro giovanile, l’accoglienza con la sostenibilità, la spiritualità con la tecnologia.

    Il primo passo è creare una rete archeologica tematica, che non sia solo cartina o brochure, ma un’esperienza autentica da vivere a piedi, con lentezza. È fondamentale riscoprire i cammini storici: gli antichi tratturi, le vie istmiche, i tracciati viari millenari che un tempo univano il versante tirrenico con quello ionico, costituendo le arterie vitali dell’antica Lucania e della Magna Grecia. Farle riemergere, studiarle, segnalarle, raccontarle, significa riattivare la memoria profonda del territorio, renderla fruibile e generativa. Su questi tracciati può nascere un turismo esperienziale, culturale e naturalistico capace di rispettare i ritmi del territorio e di generare economia sana.

    E per far rinascere questi luoghi, è indispensabile promuovere con forza l’antica storia delle zone interne. Una storia fatta di civiltà pre-romane, di scambi tra popoli, di culti ancestrali, di insediamenti perduti e di roccaforti scolpite nella roccia.

    È una storia che deve uscire dagli archivi per diventare identità viva, racconto collettivo, occasione di scoperta per nuove generazioni e viaggiatori consapevoli. Non c’è futuro senza il riconoscimento del proprio passato.

    Alla base di questa strategia non può mancare una vera infrastruttura culturale diffusa e moderna. È necessario investire in musei territoriali e antiquarium di nuova generazione, pensati non come depositi statici di reperti, ma come spazi interattivi, vivi, capaci di raccontare in modo coinvolgente e accessibile la storia locale, le civiltà antiche, le trasformazioni del paesaggio e l’identità dei luoghi.

    Ma soprattutto, occorre mettere a sistema ciò che già esiste. Troppi musei locali, antiquarium comunali, piccoli centri di documentazione oggi lavorano in modo isolato, senza una regia comune, senza dialogo. In questo piano, bisogna costruire una rete culturale integrata che metta in relazione tutte le strutture, promuovendo una programmazione condivisa, una comunicazione coordinata e un’offerta unificata verso i turisti e i cittadini.

    In questo percorso, un’azione urgente è anche quella di riprendere in mano le numerose zone archeologiche abbandonate e mai indagate, che giacciono ancora sepolte o dimenticate nelle aree interne degli Alburni e del Cilento.

    Troppe potenzialità restano in silenzio, prive di studi approfonditi, di scavi sistematici e di valorizzazione. Recuperare questi siti significa restituire al territorio un racconto interrotto, creare opportunità per giovani archeologi e ricercatori, attivare nuovi percorsi di fruizione e conoscenza. Ogni sito riemerso può diventare un nodo della rete culturale, un’occasione di lavoro qualificato, un’attrattiva per visitatori alla ricerca di autenticità.

    Ed è arrivato il momento di uscire definitivamente dal tempo delle chiacchiere e delle promesse, che da troppo tempo paralizzano ogni progetto autentico nei territori interni. È giunta l’ora di entrare nel tempo della concretezza e della fattibilità, dove ogni proposta si misura in posti di lavoro creati, servizi attivati, presenze turistiche attratte.

    È ora di dire basta a progetti senza ricadute reali, a scavi archeologici che durano pochi giorni e lasciano dietro solo un silenzio senza futuro. Basta con le iniziative effimere, scollegate da una visione d’insieme, buone solo per apparire nei comunicati stampa e non nei bilanci occupazionali.

    Il settore archeologico e culturale, se ben gestito, crea occupazione stabile in tutto il mondo: lo dimostrano i casi virtuosi di Spagna, Grecia, Francia e Turchia.

    Bisogna che gli investimenti in questo settore inizino finalmente a creare economia ed occupazione vera. Non più interventi discontinui o episodici, ma progetti strutturali capaci di produrre reddito locale, lavoro stabile, reti imprenditoriali e filiere di servizi. L’archeologia non deve essere più solo studio e tutela, ma volano di sviluppo per l’intero territorio.

    Il secondo asse fondamentale è la formazione. I giovani che oggi abbandonano questi territori devono avere una ragione concreta per restare. Serve una nuova generazione di guide archeologiche, di artigiani del turismo culturale, di comunicatori digitali capaci di raccontare con occhi nuovi l’eredità antica.

    Serve un sistema di incentivi per chi apre un rifugio, un laboratorio, un ostello per escursionisti, un centro culturale diffuso. Ogni sito archeologico può diventare un presidio occupazionale, un’opportunità imprenditoriale e un punto di riferimento identitario.

    Accanto a questo, va potenziata la dimensione digitale. I visitatori moderni chiedono accessibilità, contenuti interattivi, esperienze personalizzate. App geolocalizzate, realtà aumentata, QR code e percorsi narrativi audio possono trasformare la visita in un’esperienza immersiva e inclusiva. La tecnologia, se usata con intelligenza, può aiutare a superare le barriere fisiche e culturali, raggiungendo anche le scuole e le comunità lontane.

    Ma tutto questo ha senso solo se è sostenuto da finanziamenti realmente efficienti e da una visione strategica capace di andare oltre l’erogazione formale dei fondi. Ogni risorsa pubblica dovrà generare effetti misurabili in termini di sviluppo del territorio, incremento occupazionale, apertura di nuove imprese e flussi turistici attivati.

    Per garantire tutto questo, serve una vera governance. Serve un organo centrale di coordinamento che non si limiti a distribuire fondi, ma che analizzi, verifichi, corregga e proponga. Una cabina di regia che raccolga intorno a sé amministratori, esperti, associazioni, soprintendenze e operatori del territorio. Questo organo deve avere il compito di misurare gli impatti, pubblicare report pubblici e promuovere un dialogo costante con i cittadini. Deve anche essere dotato di strumenti tecnici per valutare l’efficacia degli investimenti e suggerire in tempo reale eventuali correttivi.

    Il Cilento interno e gli Alburni devono rinascere. Devono tornare a credere nella propria forza culturale, nella propria bellezza, nella propria storia. E questa rinascita sarà possibile solo se questi territori riusciranno finalmente a trattenere in loco le loro migliori menti, offrendo ai giovani motivazioni reali per restare, lavorare e costruire qui il proprio futuro.

    Questo non è un sogno utopico, ma una necessità storica.

    È tempo di voltare pagina, di abbandonare le logiche dell’abbandono e della marginalità, e di costruire – con le pietre del passato – il cantiere di un futuro sostenibile, dignitoso e condiviso. Le aree archeologiche interne del Cilento e degli Alburni non sono cattedrali nel deserto: possono diventare fari accesi nella notte dello spopolamento. A condizione che le politiche siano chiare, i cronoprogrammi pubblici e il controllo sugli investimenti rigoroso.

    Se le istituzioni locali, provinciali e regionali credono davvero nella rinascita delle aree interne, se le parole “identità” e “lavoro” vogliono tornare a camminare insieme, allora si cominci da qui. Dalle radici.

    E che sia chiaro: i politici e le istituzioni devono collaborare davvero, senza rivalità, senza bandiere e senza tornaconti personali.

    Solo insieme, con responsabilità condivisa, visione unitaria e coraggio collettivo, si potrà aprire una nuova stagione per il Cilento interno, per gli Alburni e per le comunità dimenticate che meritano di essere protagoniste del proprio riscatto.

    Perché prima di ogni piano, prima di ogni finanziamento, prima di ogni strategia, serve una cosa semplice e potente: bisogna realmente voler bene alla nostra cultura. Volerle bene davvero, non a parole, ma nei fatti. E smetterla, finalmente, di raccontarci che tutto va bene quando tutto sta lentamente scomparendo.

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